Il flagello biblico del precariato nell'immaginario sindacale e la sua consistenza reale

Con il Decreto Lavoro il governo è intervenuto anche sul discusso tema dei contratti a termine: un passo indietro nella lotta al precariato o, piuttosto, una mossa necessaria e al passo con l'andamento del mercato italiano? 

Claudio Negro

Non è che siamo entusiasti del "Decreto Primo Maggio" della Meloni, ma vorremmo indugiare su uno dei suoi aspetti che ha collezionato più critiche: la disciplina dei contratti a termine. Non perché li riteniamo in quanto tali una risorsa “magica”  (anche se in determinate situazioni, come per esempio la ripresa dopo una crisi, hanno una funzione non marginale), ma perché sono strutturalmente connaturati a un mercato del lavoro sano. 

Possono essere incentivati o disincentivati, a seconda delle scelte di politica economica. Ma pensare di ostacolarli per legge, e pensare di obbligare così le aziende ad assumere a tempo indeterminato, è patetico come pensare di fissare l’imponibile di manodopera. Peraltro, nonostante i toni apocalittici usati da alcuni dirigenti sindacali, il numero dei contratti a termine continua a calare mentre aumenta quello dei contratti stabili: i dipendenti permanenti in un anno sono aumentati di 515mila unità (+3,5%), a fronte di una forte riduzione dei dipendenti a tempo determinato, pari 143 mila unità (-4,6%), che tornano a scendere sotto i 3 milioni.

Il governo è intervenuto per ridare fiato ai contratti a termine: un attentato ai diritti del lavoro? In realtà, l’effetto più evidente del provvedimento è quello di incentivare l’allungamento della durata dei contratti a termine, che più agevolmente possono arrivare a 24 mesi e in determinate occasioni anche oltre. E qui interviene la discriminante ideologica: non potendo reiterare il contratto a termine, l’azienda lo trasformerebbe in stabile? Se non lo fa, perché l’esperienza con il dipendente non l'ha  convinta oppure perché non vuole gonfiare gli organici in pianta stabile, non sarà certo il divieto di prorogarlo a costringerla. In compenso, c’è da dire che l’approccio inteso a rendere sempre più breve e non rinnovabile il contratto a termine peggiora le condizioni dei lavoratori cui si applica, ai quali un contratto di 24 o 36 mesi serve assai di più di uno breve.

È opportuno notare che un contratto a termine prorogabile fino a due anni comincia ad assomigliare molto a un contratto stabile. Innanzitutto perché se dura così tanto è probabile che si trasformi in stabile: il tasso di trasformazione dei contratti a termine in stabili è in effetti in aumento (quasi il 12% rispetto al 9% del 2021). E poi perché la durata di fatto dei contratti a tempo indeterminato è piuttosto bassa, soprattutto in tempi di dimissioni volontarie: circa il 30% viene risolto entro i primi 12 mesi. Il contratto a tempo indeterminato non incarna più il lavoro “a vita” dei bei tempi del taylorismo e del laborismo. E, del resto, anche nella mitica realtà spagnola, tanto cara a sindacati e sinistra politica, c’è un elemento di “desencanto”: è vero che il contratto a termine è stato molto limitato ma, in compenso, il contratto stabile è destabilizzato, tanto che il licenziamento anche senza giusta causa è sempre possibile dietro pagamento di una penalità pari al massimo di 2 mensilità di retribuzione. Adottare il modello “spagnolo” significherebbe ridimensionare sostanzialmente l’art. 18 dello Statuto dei lavoratori: se lo si vuole, lo si dica esplicitamente. 

In questa spasmodica lotta ai contratti a termine “lunghi” il sindacato e la sinistra (che però ormai da tempo, prima ancora che la Schlein si manifestasse, ha dato segni palesi di non essere più del mestiere) hanno trascurato quello che è il vero problema, i contratti brevissimi nel comparto commercio-turismo-ristorazione. Che, in parte, sono fisiologici: pensiamo ai contratti di pochi giorni legati ad attività come promozioni-presentazioni, e che possono benissimo essere messi in regola tramite i deprecati voucher, che garantiscono emersione dal nero e contributi sociali. Ma che, in altra parte, soprattutto nel turismo-ristorazione, sono provocati da  una non volontà di investire in forza lavoro sul lungo periodo. Si crea dunque un circuito chiuso tra domanda e offerta, dove la domanda - a causa appunto della scelta di non investire sul futuro - propone contratti a termine, part-time e molto spesso sottopagati e l’offerta più qualificata gira di conseguenza al largo.

Effetto causato anche dall’enorme presenza di microaziende e, in generale, dal sottodimensionamento delle imprese di questi settori. Un dato preso dall’osservatorio Excelsior-ANPAL relativo alle previsioni per il quinquennio 2023-27: la perdita in termini economici causata dal mismatch del settore è di 7,4 miliardi annui, in assoluto la più alta di tutti i comparti; e questo a fronte di una domanda che, nel quinquennio, tra turn over e nuove assunzioni prevede oltre 750.000 avviamenti. In sostanza, il comparto che tende a occupare più forza lavoro soffre di una doppia depressione: la regolamentazione tramite i CCNL è solo parziale, la domanda supera sempre l’offerta ma questo non provoca aumenti delle retribuzioni; non funziona la contrattazione collettiva, ma neanche le leggi di mercato. Se fosse una nicchia del mercato del lavoro potrebbe essere un interessante oggetto di studio ma, su queste dimensioni, diventa un problema grosso che si pone alle parti sociali e al governo.

Un’area di sofferenza reale e definita, che richiede risposte concrete, ben al di là delle lamentazioni retoriche sull’immaginario flagello biblico del precariato.

 Claudio Negro, Fondazione Anna Kuliscioff e
Centro Studi e Ricerche Itinerari Previdenziali

22/5/2023

 
 
 

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