Occupazione, dati da record e segnali di rallentamento

Dai dati Istat sul mercato del lavoro italiano continuano ad arrivare segnali incoraggianti: a numeri da record si affianca un'interessante tendenza alla stabilizzazione, che potrebbe però rivelarsi la spia di un rallentamento della crescita produttiva del Paese 

Claudio Negro

Continuano a essere positive le notizie in arrivo dal mercato del lavoro, secondo le rilevazioni di Istat (osservatorio mensile) e Bankitalia-ANPAL. Nel mese di ottobre gli occupati risultano 23.231.000, per un tasso pari al 60,5%: entrambi sono i dati più alti dal 1977, ossia da quando sono disponibili le rilevazioni dell'Istituto.

L’aumento è trainato dal lavoro dipendente, che cresce dello 0,5% rispetto a settembre e di 2,6 punti percentuali rispetto a 12 mesi fa (quasi 500.000 soggetti in più), toccando quota 18.244.000, anche in questo caso valore record dal 1977. Diminuiscono specularmente i lavoratori autonomi, che scendono rispetto a settembre (-0,3%) ma salgono rispetto a un anno fa (+0,6%). Da notare che calano i contratti a termine (-0,6% e -1,2%), mentre crescono decisamente quelli stabili (+0,8% e addirittura +3,4% rispetto a un anno fa. Addirittura i contratti a termine rappresentano il 16,33% di quelli riguardanti il lavoro subordinato, sono cioè meno di quanti non fossero prima della crisi COVID (16,77%). 

La crescita occupazionale, al netto degli effetti demografici, ha riguardato tutte le fasce d‘età e, in particolare quella più giovane (15-34 anni), che è aumentata rispetto all’anno scorso di 4,1 punti percentuali, e ancor di più (6,6%) nella fascia giovanissima, da 15 a 24 anni. Un particolare interessante è il tasso d’incidenza dei disoccupati rispetto alla popolazione anagrafica delle varie fasce d’età comparato col tasso di disoccupazione, che fotografa quante persone sono in  cerca di lavoro e non lo trovano e che scende, in quest'ultima rilevazione, da un massimo di 23,9 punti nella fascia 15-24 a un minimo 4,8 nella fascia 50-64. Il tasso di disoccupazione rispetto alla popolazione indica dunque quale percentuale rappresentano i disoccupati rispetto alla popolazione della fascia d’età considerata. Nel dettaglio, il dato della fascia 15-24 indica la difficoltà dei giovani che cercano lavoro a trovarlo, ma l’incidenza di costoro sulla popolazione della fascia (6,2%) è sostanzialmente analoga a quella delle fasce d’età superiori: il che si giustifica solo con il fatto che il tasso di attività, ossia la percentuale di coloro che cercano attivamente lavoro, in questa fascia è molto basso, e quindi il numero dei disoccupati è sì alto in termini percentuali ma non in termini assoluti. E, infatti, il tasso di inattività (riguardante cioè di chi non cerca lavoro né lavora, sostanzialmente il versante opposto del tasso di attività) è del 74,2%: di gran lunga il più alto di tutte le fasce di età, motivato ovviamente dal fatto che gran parte della popolazione di questa fascia anagrafica è ancora a scuola. Tuttavia pesa anche moltissimo il numero dei NEET - giovani non in formazione né al lavoro - che insistono su questa fascia (oltre un milione).

In realtà l’indice di disoccupazione andrebbe letto accanto al tasso di attività per misurare con precisione la situazione del mercato del lavoro. Anche da questo punto di vista è però indubbio che i dati Istat su ottobre indichino un trend positivo: il tasso di inattività è pari al 34,3%, ai livelli del 2018 pre-COVID e quello di disoccupazione al 7,8%, ossia al livello del 2009, prima della crisi finanziaria. I dati di Banca d'Italia e ANPAL sulle COB (Comunicazioni Obbligatorie) consentono poi di entrare ancor più nel dettaglio e notare movimenti significativi all’interno dei flussi generali dell’occupazione.

Innanzitutto, è opportuno notare che l’aumento delle posizioni di lavoro a tempo indeterminato sia dovuto anche, nella misura del 62,2%, a trasformazioni di contratti a termine. Cala invece non enormemente ma costantemente la quantità di avviamenti con contratti a tempo determinato sul totale delle attivazioni: nell’ottobre di quest’anno la percentuale è pari al 66,2%. Un dato apparantemente sembrare alto, ma nel 2019 e nel 2020 questo valore era al 74,9%, e nel 2021 al 76%. Naturalmente questa grande quantità di avviamenti (cioè di assunzioni) non corrisponde ad altrettante persone fisiche: un lavoratore può avere numerosi contratti a termine anche brevi in un anno. Per valutare l’incidenza della contrattualzizazione a termine sul mercato del lavoro è allora per forza di cose necessario riferirsi a Istat, che conta le posizioni di lavoro esistenti in un dato momento. Nel nostro caso però è significativo che sia i dati di stock che quello di flusso tendano in basso: un segnale, anche senza esagerarne la portata, che il mercato si sia orientando verso rapporti più stabili.

Attenzione però a frenare i facili entusiasmi. Potrebbe infatti anche essere la spia di un rallentamento del mercato in vista di un altro rallentamento, quello della crescita produttiva. E in effetti le attivazioni, di qualunque tipo, al netto delle cessazioni, sono 344.000 per i primi 10 mesi del 2022, mentre nel 2021 (12 mesi) erano 605.000. E in effetti è largamente possibile che le prossime finestre di osservazione sull’occupazione diano dati meno brillanti, o addirittura di senso contrario, in relazione a fattori diversi: dalla guerra all’inflazione, passando per le scelte del governo in materia di lavoro. 

 Claudio Negro, Fondazione Anna Kuliscioff
e Centro Studi e Ricerche Itinerari Previdenziali 
     

13/12/2022

 
 

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