Pensioni basse e poco favorevoli alle donne? I veri numeri della previdenza italiana

L'ultimo Rapporto del Centro Studi e Ricerche Itinerari Previdenziali analizza la veridicità di alcuni luoghi comuni piuttosto diffusi su gender gap e importi degli assegni pensionistici: perché (e come) una comunicazione più trasparente gioverebbe in termini sia di disuguaglianza percepita sia di fiducia nel sistema

Mara Guarino

“Oltre la metà delle pensioni è di importo inferiore a 1.000 euro al mese” e “la previdenza sfavorisce le donne, che percepiscono infatti assegni meno generosi rispetto agli uomini”: questi due dei principali luoghi comuni che trovano spazio nel dibattito sul sistema pensionistico italiano. Affermazioni che non trovano però concreto riscontro nei dati del Casellario Centrale dei pensionati INPS rielaborati dal Decimo Rapporto sul Bilancio del Sistema Previdenziale italiano: la pubblicazione, curata dal Centro Studi e Ricerche Itinerari Previdenziali, dimostra infatti come in realtà queste convinzioni siano scorrette sia dal punto di vista dell’analisi sostanziale sia sotto il profilo di un’adeguata comunicazione dei temi previdenziali, in particolare nei confronti delle giovani generazioni. 

 

I veri importi delle pensioni 

Nel 2021 su un totale di 22.758.797 prestazioni erogate, quelle di importo fino a una volta il trattamento minimo sono poco meno di 7,5 milioni (7,409 per l’esattezza), ma quanti poi ricevono effettivamente un reddito pensionistico pari o inferiore a 515,58 euro mensili sono poco più di 2.146.638 milioni su un totale di oltre 16 milioni di pensionati. Anche alla successiva classe di importo (da 515,59 a 1.031,16 euro lordi mensili) appartengono circa 6,947 milioni di prestazioni, cui fanno però da contraltare solo circa 4 milioni (3,811) di beneficiari.

Un fenomeno che non deve sorprendere visto che un soggetto può essere contemporaneamente beneficiario di più trattamenti che si cumulano tra loro (ad esempio una pensione di importo medio-alto e uno o più trattamenti più bassi come indennità di accompagnamento e pensioni ai superstiti) facendo sì che il pensionato si collochi in una classe di reddito più elevata rispetto a quella più bassa in cui si erano posizionate le singole prestazioni. In particolare, per il 2021, il Rapporto stima 1,414 prestazioni per pensionato, il che significa che ogni pensionato italiano riceve in media quasi una pensione e mezza: nel dettaglio, il 67,9% dei pensionati ha percepito 1 prestazione, il 24,3% dei pensionati ne ha percepite 2, il 6,6% 3 e l’1,2% 4 o più. «È quindi vero che le singole prestazioni di importo pari a circa mille euro (per la precisione, fino a 2 volte il TM, pari a 1.031,16 euro), sono circa 14,356 milioni e rappresentano il 63,1% delle pensioni in pagamento, ma per correttezza andrebbe ben chiarito che i soggetti che le ricevono – spiega Michaela Camilleri, Responsabile del Centro Studi e Ricerche Itinerari Previdenziali - sono meno della metà, poco meno di 6 milioni (5,957), circa il 37% del totale pensionati, peraltro in buona parte percettori di assegni totalmente o parzialmente assistenziali, ossia non sostenute da contribuzione o integrate al minimo». 

Se si calcola l’importo medio della pensione sul numero totale delle prestazioni, si ottengono 13.753,04 euro annui lordi (1.058 euro lordi al mese in 13 mensilità), ma facendo riferimento al totale dei pensionati, il reddito pensionistico medio pro-capite risulta pari a 19.442,67 euro annui lordi (15.875 euro annui netti), quindi 1.496 euro lordi mensili (1.221 euro l’importo netto). Eppure, il dato più diffuso è proprio il primo, che divide il monte pensioni per il numero delle prestazioni, e non di pensionati, con il rischio di incentivare fenomeni di elusione fiscale: perché - potrebbero impropriamente chiedersi i giovani - versare per una vita contributi se poi le prestazioni sono così misere?».

Tabella 1 – Numero pensioni e pensionati, importo complessivo lordo e netto annuo del reddito pensionistico per classi di reddito mensile (anno 2021) 

Tabella 1 – Numero pensioni e pensionati, importo complessivo lordo e netto annuo del reddito pensionistico per classi di reddito mensile (anno 2021)

Fonte: Decimo Rapporto sul Bilancio del Sistema Previdenziale italiano, Centro Studi e Ricerche Itinerari Previdenziali

Non solo, come evidenziato all'interno del Rapporto, nel calcolo degli importi medi dei singoli trattamenti pensionistici, sarebbe poi più opportuno procedere per tipologia, evitando di mischiare tra loro prestazioni di natura non omogenea: «In particolare, sarebbe forse opportuno eliminare dal computo misure assistenziali come assegni sociali, pensioni integrate al trattamento minimo, invalidità civili, indennità di accompagnamento o rendite indennitarie Inail, così da verificare l’effettiva adeguatezza delle sole pensioni previdenziali supportate da contributi. O, ancora, appare poco ragionevole calcolare l’importo medio tra pensioni dirette e pensioni ai superstiti quando queste ultime nel Casellario INPS sono frazionate nelle aliquote di reversibilità spettanti a ciascun contitolare, che variano tra il 20% (aliquota del figlio contitolare) e il 30-60% (aliquote del coniuge che variano a seconda del reddito) dell’importo della pensione diretta». 

Provando dunque a escludere le prime due classi di reddito pensionistico (fino a 2 volte il TM), che sono principalmente assistenziali per quasi 6 milioni di pensionati, il reddito previdenziale medio dei restanti 10,141 milioni ammonterebbe a 26.441,70 euro annui lordi (contro gli ufficiali 19.442,67 euro lordi) pari a circa 19.902 euro annui netti. «Insomma, resta vero che il 37% dei pensionati ha redditi pensionistici di poco superiori ai mille euro lordi al mese, ma va anche considerato che nella maggior parte dei casi non di tratta di pensioni in senso stretto quanto piuttosto di trattamenti assistenziali a carico della fiscalità generale», precisa Camilleri. 

 

Il divario di genere 

Passando all’altro luogo comune, ovvero il cosiddetto “gender gap pensionistico”, il Decimo Rapporto evidenzia che nel 2021 le donne sono state rappresentative del 51,8% dei pensionati, percependo tuttavia il 43,9% dell’importo lordo complessivamente erogato per pensioni (137.483 milioni di euro contro i 175.520 pagati agli uomini). Sul totale delle prestazioni corrisposte – previdenziali, assistenziali e indennitarie – le donne hanno percepito un reddito pensionistico annuo medio pari a 16.501 euro; valore che nel caso degli uomini sale invece a 22.598 euro. Un divario che trova dunque reale riscontro nei numeri ma del quale spesso non vengono analizzate a fondo le motivazioni, dando spazio a una narrazione spesso imprecisa.

Innanzitutto, le pensionate registrano un maggior numero di prestazioni pro capite, in media 1,50 a testa contro le 1,32 degli uomini. Nel dettaglio, le donne rappresentano il 58,5% dei titolari di 2 pensioni, il 68,6% dei titolari di 3 pensioni e il 70,2% dei percettori di 4 e più trattamenti. Prevalgono nel caso di pensioni ai superstiti (circa l’87%) e di prestazioni prodotte da “contribuzione volontaria”, solitamente modeste a causa di bassi livelli contributivi, tutte ragioni per le quali spesso beneficiano di integrazioni al minimo (83,2%), maggiorazioni sociali (67,9%), importi aggiuntivi, quattordicesime mensilità e altre misure di matrice assistenziale. Affermare dunque, con un’elementare operazione di divisione, che ricevono prestazioni inferiori agli uomini è sì corretto dal punto di vista formale ma non da quello sostanziale. In secondo luogo, va considerato il sistema previdenziale italiano non è di per sé penalizzante nei confronti delle donne ma riflette semmai l’andamento del mercato del lavoro il quale, malgrado segni di lento e progressivo miglioramento, si caratterizza tuttora e soprattutto nel Mezzogiorno per tassi di occupazione e livelli retributivi poco favorevoli alle lavoratrici e, dunque, alle pensionate. 

Premesso che ormai da diversi anni l’età pensionabile è stata uniformata per entrambi i sessi, l’ordinamento italiano riserva in realtà alla platea femminile alcune piccole agevolazioni (dall’anzianità contributiva ridotta di un anno per la pensione anticipata passando agli “sconti” per le lavoratrici madri che accedono alla pensione di vecchiaia con il sistema contributivo),  come compensazione di una maggiore difficoltà nel conciliare lavoro e vita familiare che, anche per ragioni storiche e culturali, si traduce in nastri contributivi più brevi e frammentati. «Si potrebbe senza dubbio fare meglio ma, ancora una volta allora – precisa Camilleri – il vero tema è veicolare adeguatamente la questione, affinché si comprenda che migliorare la condizione lavorativa femminile è l'unica vera soluzione per superare le disparità tra i generi anche in chiave pensionistica: servono innanzitutto misure e servizi, come quelli all’infanzia, che riducano la discontinuità delle carriere».

Mara Guarino, Centro Studi e Ricerche Itinerari Previdenziali

1/2/2023

 
 

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