Investimenti, perché rinfrescare il concetto di perdita finanziaria

Per gli investitori italiani non si può dire che il 2018 sia stato un anno positivo, ma in che termini valutare l'impatto di eventuali perdite? Le indicazioni che si possono trarre da alcuni esempi del recente passato

Leo Campagna

L’inizio dell’anno nuovo è sempre una buona occasione per fare dei bilanci su quello appena concluso. E quello dei mercati finanziari non è affatto positivo. Infatti, i principali indici di Borsa sono in netto calo rispetto ai valori del primo di gennaio 2018: dall’Eurostoxx (-16,6%) all’MSCI world (-10%), dal Nikkei 225 (-11,8%) all’S&P500 (-6,9%). Anche il mercato obbligazionario ha tradito i risparmiatori, come dimostra l’indice generale dei fondi comuni italiani in rosso del 3,5%. Infine, se si considera che pure l’oro non ha brillato più di tanto (+2,4% in euro) e che i mercati emergenti che, nel 2017 erano stati tra i massimi trainatori dei portafogli più esposti al rischio, hanno accusato cali del 13% (mercato azionario) e del 7% (mercato obbligazionario), ecco che il quadro è completo: il 2018 è un anno da dimenticare con perdite diffuse.

Ma attenzione! Quando si parla di perdite, è sempre bene ricordare che si tratta di perdite virtuali finché non si vende. Facciamo l’esempio di un buon fondo bilanciato: se il valore della sua quota nel 2018 è sceso del 5% la perdita da virtuale diventa effettiva nel momento in cui si liquidano le posizioni in portafoglio. Se il team di gestione del fondo ha dimostrato negli anni di sapersi adeguare alle varie condizioni di mercato, è ragionevole supporre che, nel giro di qualche tempo, il nav (net asset value) torni sui valori di gennaio 2018 per poi salire verso nuovi massimi. Certo non c’è la garanzia, come nel caso di un’obbligazione (a patto che l’emittente non fallisca), di riavere il valore nominale dell’investimento dopo un certo numero di anni (alla scadenza). Inoltre, non si può sapere nemmeno quando questo accadrà, perché le variabili in gioco sono tante. Ma è possibile farsi un’idea ripercorrendo tre fasi dei mercati degli ultimi 10 anni che hanno comportato correzioni piuttosto vistose come quella partita dal 3 ottobre scorso.

La prima è quella iniziata dal 30 giugno 2007. Intorno a quella data i principali indici di Borsa internazionali segnarono il loro massimo. Nei mesi successivi iniziò una correzione dei listini sulla scia dei primi scricchiolii sui mutui subprime USA che portò l’indice MSCI world delle Borse mondiali a segnare un calo del 23% in euro subito dopo il crac Lehman Brothers (15 settembre 2008). Nello stesso arco di tempo, un buon fondo bilanciato avrebbe accusato un calo del nav di circa il 6%. Per recuperare tale calo ci sarebbero voluti 10 mesi (luglio 2009): nel frattempo il nav del fondo bilanciato avrebbe continuato a scendere fino a -14% a fine febbraio 2009, per poi riprendere quota nei mesi successivi sulla scia del recupero dei mercati.

La seconda forte correzione è stata registrata dal primo luglio 2011, quando cominciarono a circolare le prime voci sulla crisi del debito sovrano della zona euro. Un buon fondo bilanciato avrebbe accusato un calo del valore della quota del 5,5% tra giungo e agosto 2011, avrebbe perso altro terreno a settembre (portando il calo a -7%) per poi risalire nei mesi successivi e riagguantare e superare il valore del primo luglio 2011 nel settembre 2012.

La terza correzione significativa è infine quella scattata nel novembre 2015, correzione che si alimentò sui timori di un possibile forte rallentamento dell’economia cinese. A fine febbraio il valore della quota di un buon fondo bilanciato avrebbe accusato un calo del 6% recuperato nel dicembre 2016.

Questi tre esempi pratici non sono esaustivi e non possono certo assicurare che anche stavolta sarà lo stesso, perché ogni volta è diverso. Ma costituiscono la conferma che negli investimenti finanziari le perdite sono tali solo se si effettua la vendita sui minimi contabilizzando in portafoglio la minusvalenza.

Leo Campagna 

31/1/2019

 
 
 

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