Gli sgravi al Sud? Metadone sociale

Con la Legge di Bilancio torna in auge anche il tema degli sgravi contributivi al Sud: se è vero che la ripresa del Paese post COVID-19 non può fare a meno del Mezzogiorno, lo è però altrettanto che provvedimenti analoghi si sono già in passato rilevati incapaci di creare vera occupazione o di favorire lo sviluppo delle regioni coinvolte

Alberto Brambilla

Dopo il cosiddetto Decreto Agosto, la Legge di Bilancio conferma gli sgravi contributivi al Sud aggiungendo la giustificazione dell’emergenza causata dalla pandemia da SARS-CoV-2. Pertanto, utilizzando gli stessi parametri della Commissione UE per l’erogazione dei fondi europei, prevede per le aziende che assumono nuovo personale operanti nelle regioni che nel 2018 avevano un PIL pro capite inferiore al 75% della media EU27, o compreso tra il 75% e il 90%, e un tasso di occupazione inferiore alla media nazionale, uno sconto del 30% sui contributi previdenziali dovuti da lavoratori e aziende con esclusione dei premi Inail.

Le regioni interessate sono Abruzzo, Molise, Campania, Basilicata, Sicilia, Puglia, Calabria e Sardegna che, a seguito del Decreto Agosto, beneficiano dello sgravio del 30% per il trimestre ottobre-dicembre. Secondo il ministro per il Sud Giuseppe Provenzano lo sgravio sarà del 30% fino fino al 31 dicembre 2025, del 20% per il 2026-27 e nel 2028-29 del 10%. Per il ministro l’agevolazione serve a “tamponare il rischio di collasso occupazionale per questi mesi e a moltiplicare l’impatto degli investimenti dall’anno prossimo per evitare una crescita senza occupazione e avrà effetti indiretti quale l’emersione dal lavoro nero e l’attrazione di investimenti di rientro da precedenti delocalizzazioni”. Il costo previsto è di 1 miliardo per il corrente anno e 5 miliardi per gli anni successivi: miliardi che, spera il Governo, possano essere finanziati con il Recovery Plan.

Tuttavia c’è un però: il progetto necessita del via libera della Commissione perché, al di là della situazione contingente, questi sconti sono considerati “aiuti di Stato”. Questo provvedimento, anche se il governo non lo sa avendolo definito “storico”, ha un illustre precedente che è durato per circa 25 anni tra gli anni Settanta e il 1994 con le stesse giustificazioni dell’emersione del lavoro nero, dell’attrazione di imprese nazionali ed estere e per compensare l’insufficiente livello di sviluppo delle otto regioni meridionali. E così, per quasi 25 anni, sono stati in vigore gli sgravi contributivi totali (non il 30% ma totali!) che tuttavia, sulla base delle statistiche occupazionali, non hanno prodotto nuova occupazione o sviluppo. Nel 1994, a conclusione di una procedura d’infrazione per aiuti di Stato, il Commissario Karel Van Miert concluse un accordo con l’allora governo Berlusconi e con il ministro del Bilancio Pagliarini prevedendone l’eliminazione progressiva dal 1995 al 2002. Questi sgravi contributivi non solo non hanno prodotto vantaggi competitivi, ma hanno ritardato lo sviluppo delle regioni del Sud, esattamente come l’erogazione di prestazioni di invalidità (concessa in alcune aree del Paese solo per motivi economici) e altri sussidi specie in agricoltura: hanno di fatto solo “drogato” l’economia delle regioni del Sul creando poca occupazione di sussistenza che si è poi dissolta quando gli sgravi sono stati vietati; occupazione che è stata recuperata nei successivi 5 anni grazie ad assunzioni pubbliche e a necessità fisiologiche di occupazione regolare in grandi aziende permanendo tuttavia bassi tassi di occupazione soprattutto giovanili e femminili e ampie fasce di lavoro sommerso. 

Ma qual è l’attuale situazione contributiva? Per il 2019 il totale delle entrate contributive è di 209,1 miliardi, di cui il 64% (134 miliardi circa) proviene dalle 8 regioni del Nord, il 20% dalle 4 regioni del Centro (41,8 miliardi) e il 16% (33,35 miliardi) dalle 8 regioni del Sud. Le uscite per prestazioni sono invece pari a 230,5 miliardi, con il Nord che ne assorbe il 55% (126,8 miliardi) contro il 19% del Centro (43,8 miliardi) e il 26% del Sud che, con 60 miliardi, presenta uscite quasi doppie rispetto alle entrate. Il saldo tra entrate e uscite del 2019 evidenzia un disavanzo complessivo INPS pari a 37,8 miliardi: il Sud ne produce circa il 50% contro il 19% del Centro e il 31% del Nord. Poiché il livello di contribuzione sociale è una proxi del versamento IRPEF vale la pena di considerare che la sola Lombardia, con circa 10 milioni di abitanti, versa 39,4 miliardi di IRPEF, cioè più dei 35,2 miliardi dell’intero Sud nonostante questo abbia più del doppio degli abitanti (20,7 milioni) e anche più dei 37,7 miliardi del Centro con 12 milioni di abitanti e Roma sede di gran parte dell’attività politico-amministrativa.

Se questi sono i numeri, resta comunque imprescindibile lo sviluppo del Sud in assenza del quale l’intero Paese è destinato a rimanere marginale e agli ultimi posti delle classifiche per sviluppo e occupazione. Ma la domanda chiave è: perché rincorrere con scarsa memoria un esperimento già fatto e che ha dato risultati pessimi? Possibile che a nessuno venga il sospetto che sono necessarie altre politiche industriali, peraltro ben descritte ne Il lungo Mezzogiorno di Giuseppe De Rita? Al Sud occorrono infrastrutture materiali, autostrade, ferrovie, alta velocità, acquedotti, internet a banda larga, le ZES (Zone Economiche Speciali), poli industriali e sblocco degli investimenti infrastrutturali previsti nei Patti per il Sud. Lo sgravio contributivo darà gli stessi pessimi risultati del Reddito di Cittadinanza che è il nipote, nato male, del Reddito di Inserimento inventato dall’allora ministra Livia Turco e chiuso dopo pochi mesi per truffe e danni allo atato, oltre che per aver addirittura ridotto - come accade oggi - l’occupazione regolare.

Al Sud servono progetti, investimenti pubblici e soprattutto tanta sicurezza contro le “multinazionali della malavita organizzata” che sono il vero freno allo sviluppo e che solo politiche serie - e non assistenziali - possono offrire: la sanità in Calabria, la regione che performa peggio di tutte, ne è un esempio. Oggi al Sud prevalgono le pensioni di invalidità (45,68% del totale) e le assistenziali (45,57%), quasi doppio rispetto al resto del Paese con un tasso di occupazione inferiore persino alla Grecia. Per inciso, se tutte le regioni fossero autosufficienti al 75% (vale a dire se contributi e fiscalità fossero pari ad almeno il 75% delle prestazioni in pagamento), il sistema pensionistico e l’intero bilancio pubblico sarebbero in equilibrio. Invece, questi provvedimenti, insieme al Reddito di Cittadinanza, di ultima istanza e a sussidi e bonus vari non fanno altro che dare grandi dosi di “metadone sociale”, metadone che inibisce qualsiasi sviluppo se non quello delle organizzazioni malavitose che amministrano e distribuiscono  efficacemente questi sussidi.

Alberto Brambilla, Presidente Centro Studi e Ricerche Itinerari Previdenziali

3/12/2020

 
 
 

Ti potrebbe interessare anche