Una questione di fragilità: COVID-19, assistenza domiciliare e lezioni per il futuro

Nonostante gli apprezzabili sforzi compiuti nella gestione dell'emergenza, il nuovo coronavirus ha evidenziato una rete ospedaliera in difficoltà quando si tratta di rispondere a bisogni di prevenzione e cura correlati a una condizione di fragilità diffusa: il punto di vista del Prof. Roberto Bernabei, membro del Comitato Tecnico Scientifico della Presidenza del Consiglio e Presidente di Italia Longeva 

a cura di Mara Guarino

Soprattutto nelle prime settimane che hanno accompagnato e seguito la sua dirompente diffusione su tutto il territorio nazionale, la pandemia di COVID-19 ha messo irrimediabilmente a nudo alcune fragilità del Servizio Sanitario Nazionale, imponendo a tecnici e decisori politici, da una parte, di rincorrere l’emergenza per limitare quanto più possibile contagi e, dall’altra, di fare tesoro delle difficoltà patite nel corso della crisi per ripensare strumenti e strategie su cui si basa l’attuale modello di protezione sociale italiano, soprattutto in termini sanitari e assistenziali. 

Quali scenari attendono quindi l’Italia nel breve periodo? E quali, invece, i cambiamenti da operare nel prossimo futuro per permettere al Paese di farsi trovare più preparato alla gestione di situazioni emergenziali? Ne abbiamo parlato con il Professore Roberto Bernabei, Presidente di Italia Longeva e Direttore Dipartimento Scienze dell’Invecchiamento, Neurologiche,Ortopediche e della Testa-Collo Fondazione Policlinico A. Gemelli, nonché membro del Comitato Tecnico Scientifico con competenza di consulenza e supporto alle attività di coordinamento per il superamento dell’emergenza epidemiologica dovuta alla diffusione del coronavirus istituito lo scorso febbraio (Decreto del Capo Dipartimento della Protezione Civile n. 371). 

 

Tenuto conto, da una parte, della crescita dei contagi delle ultime settimane e, dall’altra, dei diversi annunci riguardanti la scoperta di vaccini con buoni livelli di efficacia, a che punto crede sia l’evoluzione della pandemia di COVID-19? 

Questa seconda ondata è per certi versi ancora più pesante della prima e siamo tutti molto colpiti dal fatto che la stabilità che pensavamo di avere raggiunto, nonostante le attese per la messa a punto dei vaccini più o meno imminente, non è ancora abbastanza robusta da farci stare tranquilli. Ma i dati ci dicono che la percentuale dei positivi rispetto al numero dei tamponi non cresce e questo ci conforta. Soprattutto i dati, dalla prima settimana di marzo a l’ultima di novembre, ci raccontano sempre la stessa cosa, cioè che questa malattia è seria ma è una malattia normale, perché è normale che le malattie infettive aggrediscano i più fragili come gli anziani e fra questi per primi quelli affetti da più patologie. Ricordo che l’età media dei deceduti è, dall’ultima settimana di febbraio alla terza di novembre, di 80 anni. Quasi tutti con 3,5 patologie di accompagnamento.

 

Come molte malattie infettive, COVID-19 si è in effetti rivelato particolarmente aggressivo con i più fragili, come ad esempio anziani, malati cronici, etc.  Assistenza domiciliare, lockdown anagrafico (o comunque mirato), rafforzamento della sanità territoriale, etc: sono molte le proposte che si sono succedute in questi mesi per tutelare i soggetti più vulnerabili. Quale a suo avviso la strada più corretta da intraprendere? 

La sfida si gioca dentro le nostre case. Dobbiamo imparare a organizzare bene le nostre abitazioni, in collaborazione con la sanità del territorio, con l’assistenza del medico di medicina generale e il supporto di pochi, semplici e accessibili strumenti di monitoraggio (benedetto saturimetro…) della propria salute, perché il luogo privilegiato per la prevenzione e la presa in carico del paziente -  e per la riduzione dei contagi secondo le indicazioni del Governo e dei tecnici - nella stragrande maggioranza dei casi è la propria casa.

Nella stessa direzione va il tema chiave dell’assistenza domiciliare. Non vi sono dubbi che l’assistenza domiciliare abbia il miglior rapporto qualità/efficacia/ prezzo e ciò vale anche nei momenti di crisi: è senz’altro un modello sanitario da considerare, perché minimizza rischi e costi.

 

A suo giudizio, in che modo il Servizio Sanitario Nazionale ha retto alla pressione esercitata dal nuovo coronavirus? Ci sono delle lezioni che si possono trarre per efficientare la sanità pubblica del Paese? Ed, eventualmente, con quali margini di integrazione o supporto da parte del privato? 

Oggi siamo più bravi a gestire l’emergenza, abbiamo imparato a rimboccarci le maniche e a prendere iniziativa. Ma abbiamo imparato a caro prezzo che la rete ospedaliera non è in grado di rispondere ai bisogni di prevenzione e di cura correlati a una condizione di fragilità diffusa. 

Per evitare che il Paese sia travolto da prossime eventuali ed imprevedibili emergenze che andranno a colpire i soggetti più deboli, è necessario riempire un territorio che negli anni si è svuotato dei presidi sanitari chiave. Il territorio va riorganizzato per rispondere con metodo e prontezza al vero bisogno epidemiologico di oggi, quello dei vecchi, dei fragili e dei cronici. Ciò richiede uno sforzo economico – alla medio-lunga ampiamente ripagato ma anche culturale, organizzativo e tecnologico - importante, a cui il pubblico e il privato possono e devono contribuire.  

 

All’estero, in particolar modo nella fase che ha preceduto la “seconda ondata”, l’Italia è stata in più occasioni presa a modello di riferimento per la gestione della pandemia. Condivide questa opinione? Ci sono altri Paesi che per Lei si sono distinti, in positivo o in negativo, nell’approccio alla crisi sanitaria? 

Mi pare che alla fine dei giochi l’Italia si sia ben comportata, soprattutto pensando al fatto che COVID-19 ha richiesto sforzi di organizzazione - materia in cui non siamo fortissimi - affrontati con metodo dal Comitato Tecnico Scientifico e dalla politica. Tutto perfettibile ma ci possiamo e dobbiamo accontentare.

Mara Guarino, Itinerari Previdenziali 

30/11/2020 

 
 
 

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