Il lavoro agile? Ecco perché serve un approccio più "smart"

Il numero degli smart worker italiani continua a crescere, ma resta ancora molto da fare affinché le aziende e le pubbliche amministrazioni italiane colgano davvero le potenzialità di un fenomeno che, ancora troppo spesso, non è inserito all'interno di una rivoluzione strategica dell'organizzazione del lavoro

Mara Guarino

Complice la spinta offerta, da un lato, dall’innovazione digitale e, dall’altro, dalla consapevolezza di dover rispondere anche con un nuovo approccio all’organizzazione dei tempi e delle modalità di lavoro alle mutate esigenze di una società che invecchia mentre fatica a trovare un work-life balance soddisfacente, lo smart working  ha guadagnato negli ultimi anni un’attenzione mediatica, e in parte anche legislativa, sempre maggiore. Tanto sulle testate di settore quanto sui principali quotidiani nazionali si susseguono articoli riguardanti aspettative e intenzioni di aziende (in prevalenza di grandi dimensioni) che hanno deciso di intraprendere percorsi di lavoro agile o celebranti i risultati di quelle che li hanno già intrapresi. 

Una semplice moda del momento o un fenomeno di trasformazione inarrestabile? L’Osservatorio Smart Working della School of Management del Politecnico di Milano non sembra avere dubbi: il lavoro smart non è un trend passeggero, ma un cambiamento che risponde concretamente alle esigenze delle persone, delle organizzazioni e della società nel suo complesso e, proprio per questa ragione, inarrestabile. Il che, tuttavia, non significa che questo processo di rinnovamento stia progredendo in Italia senza intoppi. Numeri alla mano, anzi, il nostro Paese sembra non solo non averne ancora pienamente colto tutte le potenzialità, ma si rivela ancora culturalmente e tecnologicamente impreparato a sostenerne con coraggio la diffusione. 

Veniamo dunque ai dati. In Italia, la diffusione degli smart worker è in continua crescita. Il Politecnico ne stima almeno 570mila, vale a dire il 20% in più rispetto allo scorso anno. Una percentuale interessante, se non fosse per il raffronto con il bacino potenziale di dipendenti che potrebbero accedere a soluzioni di lavoro agile, vale a dire circa 5 milioni di dipendenti privati tra i soli white collar operanti in strutture con almeno 10 dipendenti: pur volendo infatti essere conservativi, non ampliando quindi la platea potenziale a quelle mansioni (ad esempio, operai, manutentori, addetti allo sportello, etc) che, benché oggi siano ancora ritenute rigidamente vincolate a precisi orari e luoghi di lavoro, potrebbero in un futuro non esserlo più grazie alle nuove tecnologie, la penetrazione attuale dello smart working non supera il 10%. E se è vero che la dinamica di crescita non è ancora particolarmente veloce, lo è altrettanto che, così come già rilevato lo scorso anno, il grande punto debole del lavoro agile italiano si conferma una diffusione a macchia di leopardo che risente di dimensioni e tipologia delle aziende coinvolte

In particolare, secondo l’indagine a campione svolta dall’Osservatorio Smart Working, il lavoro agile è ormai una realtà nel 58% delle grandi imprese, dato quest’ultimo molto simile a quello registrato lo scorso anno, a riprova del persistere anche tra le aziende di maggiori dimensioni di uno zoccolo duro di organizzazioni sostanzialmente disinteressate o comunque poco convinte dal fenomeno. Al contrario, le iniziative di smart working registrano un aumento significativo tra le PMI (+12% rispetto allo scorso anno), dove però si continua a prediligere un approccio di tipo informale alla questione e, ancora di più, persiste un certo scetticismo non tanto sui possibili benefici dell’approccio smart (benessere organizzativo, miglioramento della produttività e dei processi aziendali, etc) quanto piuttosto sull’effettiva applicabilità di questo modello a settori in cui la presenza fisica del dipendente è tuttora ritenuta indispensabile. Raddoppiano infine i progetti messi in atto dalle Pubbliche Amministrazioni (16%), ma con iniziative ancora limitate in termini di persone coinvolte e che spesso si concretizzano come mero adempimento burocratico: pochi, non a caso, gli enti che hanno tentato sperimentazioni che andassero oltre le indicazioni fornite dalla legge Madia. 

Un quadro con molte luci e altrettante ombre, nel quale a fare da contraltare a numeri positivi si pone l’ingombrante sensazione che (gran) parte delle iniziative attuate siano spesso “di facciata” e comunque circoscritte alla possibilità di far lavorare da remoto pochi dipendenti con esigenze particolari. Anche secondo i ricercatori del Politecnico, sarebbero invece poche le organizzazioni che inquadrano queste iniziative all’interno di una progettualità più completa e coerente con i propri obiettivi di business, capace dunque di passare da un ripensamento sia degli orari e degli spazi di lavoro sia del rapporto di collaborazione stesso, la cui qualità non sarà più valutata in base al tempo dedicato all’azienda ma all’engagement generato e ai risultati ottenuti. 

Ecco perché, per quanto importante, ad esempio nell’ottica di favorire la conciliazione della vita lavorativa e di quella familiare, la flessibilità da sola non basta. Lo smart working può e deve diventare una leva attraverso cui rendere le imprese e le pubbliche amministrazioni più efficienti, competitive e attrattive e, in un momento di doverosa attenzione anche all’ambiente, anche uno strumento attraverso cui favorire la sostenibilità delle città italiane. Ma tutto questo può appunto avvenire solo a condizione di non limitarlo al pur essenziale ambito conciliativo e di non confonderlo o sovrapporlo erroneamente con un “lavorare da remoto di tanto in tanto” che non genererebbe né vera innovazione né vero coinvolgimento delle persone.

Che fare allora? Non solo le aziende ma anche il legislatore sono nel concreto chiamati a un cambio di approccio. Anche alla luce di quanto accaduto nel settore pubblico con la legge Madia, non perché ne occorra uno prescrittivo, ma perché serve semmai sostenere e accompagnare la nascita di iniziative agili con un impianto normativo capace di assecondare l’evoluzione di nuovi modelli di organizzazione del lavoro, con incentivi a favore di digitalizzazione e innovazione tecnologica, da un lato, e tutelando aziende e lavoratori dai possibili rischi (sicurezza sul lavoro, obsolescenza delle competenze, eccesso di burocratizzazione e diritto alla disconnessione tra i temi più discussi e meritevoli d’attenzione), dall’altro. 

Mara Guarino, Itinerari Previdenziali 

30/1/2020

 
 
 

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