Lavoro, qualche spunto sulla "settimana corta"...

La scelta "controcorrente" della Grecia circa l'allungamento del monte ore individuale ha riacceso il dibattito sul tema. La storia insegna però che gli accordi sul campo, in grado di collegare l'orario di lavoro alla produttività aziendale, risultano in genere più efficaci degli interventi ope legis

Claudio Negro

Quello dell’orario di lavoro, e della lotta per renderlo più "umano”, è uno dei miti fondanti del Movimento Operaio e, per questo, si porta dietro una carica emotiva che va bel al di là dei suoi contenuti concreti. L’ultima volta che nei tempi recenti si è riaperta la questione andava sotto il nome di battaglia "lavorare meno lavorar tutti".

In Italia fu, negli anni Settanta-Ottanta, uno dei modi in cui il sindacato pensò di resistere all’ondata di esuberi che accompagnava le grandi ristrutturazioni industriali. In realtà, trovò applicazione soltanto in accordi aziendali di grandi imprese, dove si sperimentarono nei cicli continui schemi di turno che tagliavano un po’ l’orario individuale, senza mai arrivare però all’agognato obiettivo della quinta squadra, che avrebbe portato l’orario individuale alle 32 ore settimanali. Con i petrolchimici ENI si sperimentò uno schema di turno 3-2 (ossia 3 giorni di lavoro e 2 di riposo) che però fu abbandonato quando l’azienda mostrò che i costi erano insostenibili. Chi fece sul serio fu invece Mitterrand, che appena eletto Presidente fece ciò che aveva promesso in campagna elettorale: tagliò per legge l’orario individuale di lavoro. A dispetto dei cori trionfali e delle scene di disperazione, il sistema si autoregolò senza che vi fossero particolari effetti sull’occupazione: le ore non lavorate vennero in generale accumulate a livello individuale per essere tradotte in ferie o permessi retribuiti; quanto alle imprese, fecero fronte al minor input di lavoro aumentando la produttività dei fattori.  

Quest’esperienza determina il criterio col quale rapportarsi alla questione dell’orario di lavoro. La sua diminuzione non induce un aumento dell’occupazione, viceversa le sue variazioni sembrano essere funzioni della produttività.

A questa regola obbediscono le riduzioni di orario individuale praticate in molte imprese tedesche, e a queste si ispirano la gran parte delle rivendicazioni contrattuali in Italia. Ovviamente questo criterio può applicarsi a livello di impresa, e non certo di comparto. Resta poi da definire se i lavoratori preferiscano più riposi o più salario: salvo casi eccezionali, le due cose non sono compatibili.

L’idea del governo greco di sbalordire il mondo aumentando ope legis l’orario individuale di lavoro è un’assoluta novità. Le motivazioni non sono univoche: da una parte, c’è il tentativo di rendere legali gli straordinari largamente praticati e pagati in nero (e perché mai ciò dovrebbe indurre a pagare in chiaro quel che si può pagare in nero?); dall’altra, dovrebbe consentire alle imprese di aumentare l’input di forza lavoro senza ricorrere a nuove assunzioni, a fronte della difficoltà delle aziende di assumere le professionalità necessarie.

Si tratta evidentemente di una scelta iperconservativa, dal fiato cortissimo. Il futuro è in una riconduzione dell’orario alla produttività ma non va dimenticato che si stanno evolvendo nuove forme di prestazione lavorativa: l’home working porta inevitabilmente a un rapporto di lavoro non misurabile in termini orari.

In sostanza, l’intervento a fini di politica del lavoro sull’orario è ininfluente. Gli accordi sul campo, che colleghino l’orario di lavoro alla produttività aziendale, sono invece utili e fanno crescere. 

 Claudio Negro, Fondazione Anna Kuliscioff e
Centro Studi e Ricerche Itinerari Previdenziali

10/7/2024

 
 
 

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