Lo smantellamento del Jobs Act?

Dopo l'ultima sentenza della Corte Costituzionale sull'indennità di licenziamento, è davvero legittimo parlare di smantellamento del Jobs Act? Cosa resta e cosa invece andrebbe ulteriormente migliorato dell'ambiziosa riforma del mercato di lavoro del 2015

Gabriele Fava

Com’è noto, con la sentenza n. 194 del 2018, la Corte Costituzionale ha dichiarato l’incostituzionalità dell’indennità di licenziamento parametrata all’anzianità di servizio per gli assunti dopo il 7 marzo 2015 di cui all’articolo 3, comma 1, del Decreto legislativo n. 23/2015. Sulla base della citata pronuncia di incostituzionalità, quindi, viene meno uno degli aspetti maggiormente innovativi della riforma fortemente voluta dal Governo Renzi, ossia l’automatica parametrazione dell’indennità di licenziamento all’anzianità aziendale del lavoratore. Proprio tale aspetto caratterizzava il cosiddetto contratto a tutele crescenti, le cui tutele, appunto, erano “crescenti” poiché aumentavano all’aumentare dell’anzianità aziendale accumulata.

La sentenza della Consulta, come detto, ha cancellato, con un netto colpo di spugna, l’elemento tipico delle "tutele crescenti", eliminando, di fatto, la principale differenza tra il regime ante Jobs Act (per gli assunti sino al 7 marzo 2015) e post Jobs Act (per gli assunti a partire dal 7 marzo 2015), fonte stessa dell’implementazione di un sistema di “flessibilità in uscita”, obiettivo dichiarato della riforma.  Venuta meno la più significativa differenza tra i due regimi di assunzione, pur permanendo formalmente il doppio binario di tutele, viene ridotto edattenuato quell’affiancamento e quella duplicazione, da sempre osteggiata e criticata da importante dottrina, che ha comportato macroscopiche differenze di tutele dovute unicamente in ragione della data di assunzione, con contestuale nocumento verso i lavoratori più giovani entrati nel mondo del lavoro successivamente all’approvazione del Jobs Act.

Per quanto attiene alla flessibilità in uscita, preso atto della sentenza della Corte Costituzionale, occorrerebbe ragionare sulla possibilità, partendo dai molti aspetti positivi del contratto a tutele crescenti, quale ad esempio l’offerta di conciliazione,  di applicare a tutti i lavoratori un’unica disciplina frutto dell’armonizzazione delle cosiddette tutele crescenti  con l’attuale testo dell’art. 18 dello Statuto dei Lavoratori, ciò  anche al fine di dare risposta alle esigenze di flessibilità tipiche del moderno mercato del lavoro.

Ciò detto, nonostante la sopramenzionata sentenza, il Jobs Act non è di certo “morto”, come da più parti asserito. Basti pensare alla modifica dell’art. 2103 del Codice Civile, un importantissimo intervento della riforma del lavoro targata Renzi, il quale non è stato scalfito dagli interventi riformatori successivi. Una delle note maggiormente positive della riforma del 2015, infatti, è certamente costituito dall’aumento del potere modificativo in capo al datore rispetto alle mansioni dei lavoratori, oggi sempre ammissibile purché le nuove mansioni siano riconducibili allo stesso livello e categoria di inquadramento.

Ulteriore elemento del Jobs Act che rimane, per il momento, al sicuro da eventuali propensioni allo “smantellamento” è, senza dubbio, lo sforzo compiuto nel raccogliere in un unico testo normativo tutta la disciplina in merito ai contratti di lavoro, tanto che, non a caso, il D.lgs. n. 81/2015 è altresì chiamato Testo Unico dei contratti di lavoro. La raccolta normativa sfociata nel citato D.Lgs. 81/2015, infatti, ha favorito chiarezza e certezza di diritto, elementi certamente apprezzabili e che, per il momento, hanno resistito al successivo intervento di cui al Decreto Dignità, non brillante per quanto concerne la chiarezza del linguaggio ed interpretativa.

Proprio con riferimento al Decreto Dignità, va sottolineato come l’intervento in parola, nonostante contenga previsioni in fortissima discontinuità con la riforma renziana, non è stato in grado di “licenziare” il Jobs Act, come più volte affermato da fonti governative. Se è vero, infatti, che con il "Decreto Dignità" viene meno l’acausalità del contratto a tempo determinato, cavallo di battaglia della riforma del 2015, e viene normativamente accumunata la prestazione di lavoro in somministrazione a termine a quella ordinaria di lavoro subordinato a termine, è pur sempre vero che tali interventi non mutano l’impianto generale e la natura dei provvedimenti del 2015, intervenendo unicamente su alcuni aspetti e lasciandone invariati moltissimi altri (si pensi, ad esempio, all’apprendistato o al part-time).

Altro importante passo in avanti del Jobs Act è rappresentato dalla regolamentazione per legge del lavoro agile, contenuta nel cosiddetto Jobs Act degli autonomi (D.Lgs. n. 81/2017), ma facente parte del pacchetto normativo della stagione riformatrice iniziata nel 2015. Lo smart working, infatti, è un'importante iniziativa volta a modernizzare il sistema Paese nell’ottica di un incremento della competitività e una agevolazione della conciliazione dei tempi di vita e lavoro, con ricadute positive per quanto riguarda lo svecchiamento dell’assetto organizzativo delle aziende e un approccio moderno agli aspetti spazio-temporali della prestazione.

Da ultimo, è doveroso sottolineare come il processo riformatore di cui al Jobs Act non possa considerarsi giunto al definitivo compimento, risultando, infatti, ancora mancante l’ultimo tassello del binomio flexicurity, ossia le politiche attive del lavoro. Se si prescinde dall’implementazione dell’assegno di ricollocazione e dalla creazione dell’ANPAL - oggetto, come noto, di numerose critiche - l’intervento pare tuttora carente di efficaci ed efficienti politiche attive del lavoro. Elemento, quest’ultimo, che più che essere smantellato, andrebbe aggiunto, di modo da poter completare l’ambiziosa riforma del 2015 e poterne valutare appieno gli effetti sul mercato del lavoro del nostro Paese.

Gabriele Fava, Socio Fondatore e Presidente dello Studio legale Fava & Associati​

19/2/2019

 
 
 

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