Lo smantellamento del Jobs Act?
Dopo l'ultima sentenza della Corte Costituzionale sull'indennità di licenziamento, è davvero legittimo parlare di smantellamento del Jobs Act? Cosa resta e cosa invece andrebbe ulteriormente migliorato dell'ambiziosa riforma del mercato di lavoro del 2015
Comè noto, con la sentenza n. 194 del 2018, la Corte Costituzionale ha dichiarato lincostituzionalità dellindennità di licenziamento parametrata allanzianità di servizio per gli assunti dopo il 7 marzo 2015 di cui allarticolo 3, comma 1, del Decreto legislativo n. 23/2015. Sulla base della citata pronuncia di incostituzionalità, quindi, viene meno uno degli aspetti maggiormente innovativi della riforma fortemente voluta dal Governo Renzi, ossia lautomatica parametrazione dellindennità di licenziamento allanzianità aziendale del lavoratore. Proprio tale aspetto caratterizzava il cosiddetto contratto a tutele crescenti, le cui tutele, appunto, erano crescenti poiché aumentavano allaumentare dellanzianità aziendale accumulata.
La sentenza della Consulta, come detto, ha cancellato, con un netto colpo di spugna, lelemento tipico delle "tutele crescenti", eliminando, di fatto, la principale differenza tra il regime ante Jobs Act (per gli assunti sino al 7 marzo 2015) e post Jobs Act (per gli assunti a partire dal 7 marzo 2015), fonte stessa dellimplementazione di un sistema di flessibilità in uscita, obiettivo dichiarato della riforma. Venuta meno la più significativa differenza tra i due regimi di assunzione, pur permanendo formalmente il doppio binario di tutele, viene ridotto edattenuato quellaffiancamento e quella duplicazione, da sempre osteggiata e criticata da importante dottrina, che ha comportato macroscopiche differenze di tutele dovute unicamente in ragione della data di assunzione, con contestuale nocumento verso i lavoratori più giovani entrati nel mondo del lavoro successivamente allapprovazione del Jobs Act.
Per quanto attiene alla flessibilità in uscita, preso atto della sentenza della Corte Costituzionale, occorrerebbe ragionare sulla possibilità, partendo dai molti aspetti positivi del contratto a tutele crescenti, quale ad esempio lofferta di conciliazione, di applicare a tutti i lavoratori ununica disciplina frutto dellarmonizzazione delle cosiddette tutele crescenti con lattuale testo dellart. 18 dello Statuto dei Lavoratori, ciò anche al fine di dare risposta alle esigenze di flessibilità tipiche del moderno mercato del lavoro.
Ciò detto, nonostante la sopramenzionata sentenza, il Jobs Act non è di certo morto, come da più parti asserito. Basti pensare alla modifica dellart. 2103 del Codice Civile, un importantissimo intervento della riforma del lavoro targata Renzi, il quale non è stato scalfito dagli interventi riformatori successivi. Una delle note maggiormente positive della riforma del 2015, infatti, è certamente costituito dallaumento del potere modificativo in capo al datore rispetto alle mansioni dei lavoratori, oggi sempre ammissibile purché le nuove mansioni siano riconducibili allo stesso livello e categoria di inquadramento.
Ulteriore elemento del Jobs Act che rimane, per il momento, al sicuro da eventuali propensioni allo smantellamento è, senza dubbio, lo sforzo compiuto nel raccogliere in un unico testo normativo tutta la disciplina in merito ai contratti di lavoro, tanto che, non a caso, il D.lgs. n. 81/2015 è altresì chiamato Testo Unico dei contratti di lavoro. La raccolta normativa sfociata nel citato D.Lgs. 81/2015, infatti, ha favorito chiarezza e certezza di diritto, elementi certamente apprezzabili e che, per il momento, hanno resistito al successivo intervento di cui al Decreto Dignità, non brillante per quanto concerne la chiarezza del linguaggio ed interpretativa.
Proprio con riferimento al Decreto Dignità, va sottolineato come lintervento in parola, nonostante contenga previsioni in fortissima discontinuità con la riforma renziana, non è stato in grado di licenziare il Jobs Act, come più volte affermato da fonti governative. Se è vero, infatti, che con il "Decreto Dignità" viene meno lacausalità del contratto a tempo determinato, cavallo di battaglia della riforma del 2015, e viene normativamente accumunata la prestazione di lavoro in somministrazione a termine a quella ordinaria di lavoro subordinato a termine, è pur sempre vero che tali interventi non mutano limpianto generale e la natura dei provvedimenti del 2015, intervenendo unicamente su alcuni aspetti e lasciandone invariati moltissimi altri (si pensi, ad esempio, allapprendistato o al part-time).
Altro importante passo in avanti del Jobs Act è rappresentato dalla regolamentazione per legge del lavoro agile, contenuta nel cosiddetto Jobs Act degli autonomi (D.Lgs. n. 81/2017), ma facente parte del pacchetto normativo della stagione riformatrice iniziata nel 2015. Lo smart working, infatti, è un'importante iniziativa volta a modernizzare il sistema Paese nellottica di un incremento della competitività e una agevolazione della conciliazione dei tempi di vita e lavoro, con ricadute positive per quanto riguarda lo svecchiamento dellassetto organizzativo delle aziende e un approccio moderno agli aspetti spazio-temporali della prestazione.
Da ultimo, è doveroso sottolineare come il processo riformatore di cui al Jobs Act non possa considerarsi giunto al definitivo compimento, risultando, infatti, ancora mancante lultimo tassello del binomio flexicurity, ossia le politiche attive del lavoro. Se si prescinde dallimplementazione dellassegno di ricollocazione e dalla creazione dellANPAL - oggetto, come noto, di numerose critiche - lintervento pare tuttora carente di efficaci ed efficienti politiche attive del lavoro. Elemento, questultimo, che più che essere smantellato, andrebbe aggiunto, di modo da poter completare lambiziosa riforma del 2015 e poterne valutare appieno gli effetti sul mercato del lavoro del nostro Paese.
Gabriele Fava, Socio Fondatore e Presidente dello Studio legale Fava & Associati
19/2/2019