Mercato del lavoro forte e salari deboli: cosa si può fare

I dati di marzo si confermano buoni ma, a una lettura più attenta, due diverse dinamiche dipingono un mercato del lavoro tutt'altro che consolidato: le difficoltà di accesso dei giovani all'occupazione e la crescita dei salari ancora molto debole nel confronto con l'inflazione

Alberto Brambilla e Claudio Negro

I dati Istat sull’occupazione al mese di marzo mostrano un’inversione di segno di quasi tutti gli indicatori congiunturali, come del resto è accaduto già altre volte negli ultimi mesi, ma non tanto da influire significativamente sui dati tendenziali. Diminuisce quasi impercettibilmente l’occupazione rispetto al mese di febbraio (0,1%), ma il calo è dovuto quasi totalmente al lavoro autonomo (-0,3%) e al lavoro dipendente a tempo determinato (-2,4%). Se si considera l’intero primo trimestre i valori sono ancora prevalentemente positivi, soprattutto l’occupazione complessiva (+0,9%), e di segno meno c’è solo il dato dei contratti a termine (-1%). I dati tendenziali (ultimi 12 mesi) suggeriscono che questo trend sia ormai consolidato, con variazioni minime quasi sempre ribaltate nella rilevazione successiva. Anche i dati sulla forza di lavoro non si discostano da questa tendenza: il tasso di occupazione è sostanzialmente intorno al 63% per tutto il trimestre, a fronte di un 2024 più o meno stabile poco sopra il 62%. Sostanzialmente stabili dagli ultimi mesi del 2024 i tassi di disoccupazione, intorno al 6%, e addirittura in leggero calo il tasso di inattività, sceso appena sotto il 33% nel trimestre. 

Sotto la sostanziale stabilità dei dati si celano però due dinamiche che parlano di un mercato del lavoro tutt’altro che consolidato. La prima riguarda l’accesso dei giovani all’occupazione: i giovani delle fasce di età 15-24 anni e 25-34 sono le uniche classi di popolazione che vedono calare l’occupazione, sia in termini congiunturali (- 0,4%) sia tendenziali (-0,5% e -1%), e aumentare il dato tendenziale del tasso di inattività di quasi l’1%. Anche al netto della componente demografica (escludendo quindi le fluttuazioni di valore dovute all’invecchiamento della popolazione), il tasso di occupazione della fascia 15-34 anni cala negli ultimi 12 mesi dell’1,8%, invertendo una tendenza che dalla fine del 2023 sembrava orientata alla crescita. Un segnale chiaro che l’occupazione tende a concentrarsi tra le fasce di età medie e medio-alte (rispettivamente 78% e 66,8%, in crescita tendenziale dell’1,2% e del 2,2%). Questa situazione può dipendere sia dai movimenti demografici sia dai diversi provvedimenti tesi a ritardare l’età della pensione, ma resta da capire, e qui sta uno dei maggiori problemi italiani, perché non funzionino altrettanto efficacemente gli svariati strumenti destinati a sviluppare l’occupazione giovanile. Programmi ben finanziati, come Garanzia Giovani e GOL, hanno prodotto risultati assai modesti in termini di avviamento al lavoro, mentre ogni anno 30-40mila giovani, di solito molto qualificati, emigrano per trovare occupazione e retribuzioni all’altezza delle loro competenze e aspettative. Va detto che questi spostamenti giovanili sono del tutto naturali, perché chiunque, anche tra le vecchie generazioni ne avesse avuto la possibilità, un’esperienza “frizzante” all’estero l’avrebbe certamente fatta. Il problema è la sommatoria dei problemi legati ai giovani: l’emigrazione dei cervelli, il loro sottoutilizzo in patria (dove doveri e merito stentano a farsi strada), uniti alla diffusa inattività giovanile e al rifiuto di impegni di lavoro, costituiscono un ostacolo decisivo per l’introduzione e la diffusione delle nuove tecnologie, dell’innovazione e della ricerca che sono indispensabili per evitare una stagnazione del sistema produttivo e uno slittamento dell’economia verso la fascia dei Paesi marginali.

A questo proposito, tornando al report Istat, c’è da notare che, nonostante la sostanziale stabilità (apparente) del mercato del lavoro, i dati macroeconomici indicano, e non da oggi, una tendenza in discesa o in stagnazione: il fatturato dell’industria registra un calo tendenziale di 1,5 punti in termini di valore e di 2,2 in termini di volume prodotto. La produttività del lavoro è piatta dal 2000, e quella totale dei fattori lo stesso (pur con diverse oscillazioni temporanee). L’inflazione sembra assestarsi  attorno al 2%, quanto basta per frenare la corsa al recupero del potere d’acquisto dei salari determinato dal rinnovo di molti CCNL spesso da troppo tempo scaduti: l’aumento medio per l’intero settore privato è del 4,19%, ben lontano dal riportare  le retribuzioni italiane al livello medio europeo (24.051 euro annui contro 29.056).

Il quadro finale non è roseo: un’economia stagnante, dove cresce l’occupazione soprattutto a buon mercato, con redditi bassi che limitano il mercato interno (mentre, salvo dazi trumpiani, tira l’export). Una prospettiva di economia ad alto tenore di mano d’opera povera - salvo isole felici - e basso tasso di tecnologia: il rischio di finire così non è fantapolitica. C’è inoltre il problema dei salari che potrebbe essere risolto in modo semplice dal governo, senza eccessive perdite di gettito, mantenendo una pressione fiscale reale uguale nel tempo; sarebbe una soluzione equa nei confronti dei contribuenti, che è vero guadagnano di più ma che, con quei redditi in più, spesso non recuperano il potere d’acquisto precedente, modificato soprattutto dalla recente fiammata inflazionistica (in 3 anni circa il 15%) e, quindi, comprano meno o, se vogliamo tradurre, riducono il loro tenore di vita. Di conseguenza, se si vuole mantenere costante in termini reali il livello di pressione fiscale, occorre tener conto dell'inflazione. Ad esempio, 50mila euro di reddito lordo nel 2020, nel 2025 sono svalutati, applicando l'indice NIC, di circa il 15%. Pertanto, sarebbe equo spostare in avanti di pari importo, lo scaglione di reddito sul quale applicare l'imposta: nel caso d’esempio, il limite dei 50mila euro oltre il quale l'aliquota passa dal 35% al 43% dovrebbe essere spostato in avanti di almeno 7.500 euro. 

Occorre inoltre considerare che le tante norme su decontribuzione, TIR, sgravi fiscali, concentrati sui redditi fino a circa 30mila euro, determinano un blocco degli aumenti perché, anche un aumento di 100 euro netti può in contemporanea far perdere le agevolazioni del caso e far passare all'aliquota successiva, con il paradosso che - anziché troaversi un incremento in busta paga - si possa scoprire una leggera perdita. È su questi temi reali che dovrebbe esercitarsi la politica.

Alberto Brambilla, Presidente Centro studi e Ricerche Itinerari Previdenziali

Claudio Negro, Fondazione Anna Kuliscioff e Centro Studi e Ricerche Itinerari Previdenziali​ 

12/5/2025

 
 
 

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