Perché il contratto a termine non è necessariamente sinonimo di precarietà

Nonostante un trend in miglioramento confermato dai dati Istat riferiti allo scorso novembre, l'elevato numero di contratti a termine desta preoccupazioni sulla qualità della ripresa occupazionale italiana: esiste un problema di precarietà o urge piuttosto ammodernare gli schemi con cui si guarda al mercato del lavoro? 

Claudio Negro

Il monitoraggio Istat sull’occupazione, che pubblica i dati di novembre 2021, conferma la tendenza alla crescita costante e lineare a partire dal terzo trimestre 2020 sia del tasso di occupazione (da 57,4 a 58,9) sia del tasso di attività, che somma gli occupati a coloro che cercano attivamente lavoro (da 63,9 a 65). Anche se mancano ancora 115.000 occupati per raggiungere i livelli pre COVID, l’inversione di tendenza è ormai netta e consolidata. Il rapporto non presenta dunque particolari sorprese ma alcuni rilievi statistici non erano scontati, o hanno indebitamente suscitato sconcerto, ed è opportuno approfondirli. 

In primo luogo, il dato delle assunzioni a termine. Il numero assoluto è imponente: +448.000 rispetto a 12 mesi fa. Il che ha suscitato allarmi fortissimi in molti commentatori e soprattutto nel sindacato, dal quale è già partita come un riflesso pavloviano la perentoria intimazione a vietare i contratti a tempo determinato, se non per sostituzione o per necessità produttive contingenti. Basterebbe una semplice riflessione sugli esiti del cosiddetto “Decreto Dignità” per evitare figure patetiche, ma evidentemente l’occupazione per legge - come tutti gli slogan - esercita ancora un certo fascino… In realtà, il gran numero di assunzioni a termine ripristina la percentuale di contratti a tempo determinato che esisteva prima della crisi sanitaria: adesso riguarda il 17,1% dei lavoratori dipendenti, nel 2018 era il 17%. Del resto è prevedibile che in presenza di un trend di crescita ma con parecchi interrogativi sul futuro, condizionato dai rischi di una ripresa dei contagi, le imprese siano poco propense a fare assunzioni definitive.

Esiste però anche un altro aspetto sul quale sarebbe bene iniziare a riflettere: se cioè il rapporto di lavoro a termine non stia diventando una modalità comune e non eccezionale di lavoro. E questo non per il bieco interesse dell’azienda a sfruttare la manodopera senza legarsi le mani, ma perché comincia a perdere di significato la nozione stesa di tempo indeterminato, con l’implicita aspirazione all’eternità che sottende. Da qualche anno i dati delle cessazioni di lavoro ci dicono che il 30% dei contratti a tempo indeterminato si risolve entro i primi 12 mesi, e nella maggioranza dei casi per dimissioni del dipendente. È intuibile come si tratti di un comportamento nuovo, che nasce in un contesto nel quale, da un lato, la diffusione del digitale rende più fluide le professionalità e la loro spendibilità, e dall’altro, per quanto riguarda i lavori meno qualificati, nelle fasi di crescita aumentano le possibilità di miglioramento per i lavoratori, stante la concorrenza tra i datori (il 22% delle posizioni di lavoro a bassa qualificazione restano vacanti in questi mesi per mancanza di candidati).

Una riflessione che affranchi, in linea di principio, il contratto a termine dal marchio della precarietà (in Europa non esiste neppure la parola applicata al mercato del lavoro) e ridefinisca i rapporti di lavoro sulla base delle dinamiche proprie dell'industry 4.0 è quantomai necessaria. Diventa sempre più difficile interpretare il mercato del lavoro del secondo millennio con le categorie del XX secolo!

Un altro punto di interesse riguarda la questione delle cessazioni. Innanzitutto dobbiamo prendere atto che, al contrario di quello che molti osservatori (e anche noi) avevano paventato, cioè uno tsunami di licenziamenti, lo tsunami non c’è stato. Anche perché il governo ha fatto scadere i divieti di licenziamento con gradualità a seconda dei settori, e ha consentito la proroga della Cassa Integrazione con causale COVID fino al termine dell’anno. Evidentemente c’è stato però dell'altro: i licenziamenti - quindi, cessazioni su iniziativa dell’azienda - sono stati nel trimestre agosto-ottobre 2021 59.000, vale a dire il 37% in meno rispetto al corrispondente trimestre ante crisi (2019). Tuttavia dopo il 30 giugno, quando è cessato il divieto per manifattura e costruzioni, c’è stata un’impennata dei licenziamenti (+18.000), senza che il tasso di licenziamento (mensile) abbia appena superato lo 0,4%, restando anzi di qualche decimale al di sotto di quello mediamente rilevato nel 2019. I primi dati di novembre (che però Banca d'Italia non pubblica per esteso) mostrano un andamento simile per i settori in cui il divieto di licenziare è scaduto il 31 ottobre: servizi, tessile, abbigliamento, calzature. 

C’è stato poi molto interesse circa il fenomeno delle dimissioni volontarie, conclamato negli USA. Nonostante una certa attenzione dei media qui in Italia non di vero fenomeno si è trattato, se non in misura marginalissima: Bankitalia rileva un 5% in più di dimissioni rispetto al periodo ante crisi. Del resto, se si vogliono interpretare i dati Istat di novembre, nel trimestre settembre-ottobre-novembre 2021 gli occupati a tempo indeterminato sono calati di 10.000 unità rispetto al trimestre precedente, mentre gli autonomi di 9.000. A novembre, rispetto a ottobre, i primi  (i subordinati) sono calati di 21.000 unità, e i secondi aumentati di 66.000. È evidente che non c’è correlazione, se non appunto più che marginale, tra diminuzione dei dipendenti a tempo indeterminato e aumento degli autonomi. Quindi, se non altro, non si tratta di una fuga dal lavoro dipendente per una serie di concause, com'è negli Stati Uniti, ma al massimo di un chiaro segnale di mobilità tra posti di lavoro. Il che comunque è una bella notizia, perché testimonia una crescente fluidità del mercato in favore dei lavoratori.

Claudio Negro, Centro Studi e Ricerche Itinerari Previdenziali e Fondazione Anna Kuliscioff

19/1/2022

 
 
 
 

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