Working poor, chi sono e come possono uscire dalla povertà

Complice anche il dibattito sulla riforma fiscale, è cresciuta nelle ultime settimane l'attenzione di media e politica nei confronti dei working poor: chi sono esattamente i "lavoratori poveri" del nostro Paese e, statistiche alla mano, quali le eventuali strade per contrastare il fenomeno? 

Claudio Negro

Il rapporto sulle imposte dirette e indirette, recentemente presentato da Itinerari Previdenziali, ha tra le altre cose spiegato che 18 milioni di cittadini presentano dichiarazioni IRPEF che portano a imposte negative o al massimo pari a 848 euro annui. Si tratta di rediti che vanno da 0 a 15mila euro che, in termini netti, significano da 1.090 euro al mese in giù. Si tratta della fascia più disagiata, nella quale si concentrano anche la gran parte dei sussidi contro la povertà (che in genere non concorrono alla base imponibile). Può quindi essere interessante mettere a fuoco in quale misura quest’area possa interessare il lavoro dipendente. 

Sempre facendo riferimento all'Osservatorio, i lavoratori dipendenti compresi in questa fascia che pagano l’IRPEF sono circa 4.300.000, il 20% dell'intera categoria, e pagano un’imposta che va dai 69 ai 734 euro medi annui. Sono proprio loro i working poor sui quali, ancor di più dopo COVID-19, si cerca di porre l'attenzione? 

 

Chi sono i working poor italiani?

Si prenda allora in esame la categoria che ha le retribuzioni inferiori, cioè le qualifiche operaie, che rappresentano il 58% dell’occupazione dipendente: la retribuzione media annua lorda, comprensiva di premi di risultato, è pari a 25.686 euro (dati 2019, come quelli del documento curato dal Centro Studi e Ricerche Itinerari Previdenziali, riferiti ai cosiddetti contratti tipo, vale a dire a tempo indeterminato e full-time). Quindi, molto superiore ai 15.000 di cui sopra. Se si osserva più da vicino la composizione del gruppo “operai” si può notare come la retribuzione scenda significativamente per i giovani (15-24), le donne e le microaziende. Tuttavia, anche considerando queste variabili e integrandole nel dato medio, si ottiene che il decile più basso delle retribuzioni operaie vede un valore di 21.669 euro che, in termini di imponibile (ossia detratto il 9% di contributi), significa 19.718 euro. Per scendere sotto i 15mila occorre guardare a forme contrattuali che non comportino la retribuzione piena per tutto l’anno: part-time, contratti a termine, lavori intermittenti, stagionali oppure occasionali. 

Nel 2019 gli occupati con contratti di lavoro a termine sono stati mediamente 3.000.000, compresi gli stagionali, e nel 73% dei casi la durata del contratto non superava i 6 mesi. Inoltre, mediamente, un tempo determinato ha una retribuzione oraria inferiore del 30% alla media dei tempi indeterminati (a causa dei bassi profili professionali). Un contratto di 6 mesi vale nell'iipotesi media poco più di 12.000 euro di imponibile, ma spesso anche molto meno. Anche se non è noto quanti lavoratori abbiano avuto più di un contratto nel corso dell’anno, è verosimile che la gran maggioranza degli interessati non abbia superato la soglia dei 15.000 euro. Se si usa come riferimento i 6 mesi di durata del contratto, si ottiene che in questa fascia sono inclusii circa 2.500.000 lavoratori, compreso un congruo numero di coloro che - pur superando i 6 mesi di contratto - non si avvicinano al salario annuo pieno. 

I contratti part-time erano 3.690.000, di cui la maggioranza della durata da 20 a 30 ore settimanali. Si tratta soprattutto di donne, spesso part-timer involontarie, con profili professionali medio-bassi. Determinando il fatto che la retribuzione oraria del part-timer sia pari solo al 69% della retribuzione della media dei contratti full time, nella fascia con orario che si avvicina alle 30 ore settimanali non è tuttavia improbabile trovare redditi superiori ai 15mila euro: una lavoratrice di livello medio-basso con un part-time di 30 ore ha in effetti una retribuzione lorda che si aggira appunto attorno ai 15.000 euro lordi. Anche in questo caso mancano dati precisi, per cui occorre procedere con una stima approssimativa: i tempi parziali al 50% (orizzontale o verticale) sono nettamente più numerosi di quelli al 75% (ad esempio, 30 ore settimanali), per cui è verosimile che la cifra si aggiri sui 2.500.000.  

Vanno quindi computati i lavoratori “a chiamata” (lavoro intermittente) che erano nel 2019 187.000, con una media di giornate lavorate di 10 al mese, quindi nella scala retributiva collabili da una retribuzione circa il 50% di quella piena in giù. Si stimano pochissimi coloro che avvicinano le 20-21 giornate mensili di un contratto “pieno” o addirittura le 25-26 di un orario a turni, avvicendate su 6 giornate settimanali. Si possono pertanto ipotizzare in 150.000 i lavoratori con questo tipo di contratto che non raggiungono i 15mila euro di reddito. Vi sono poi circa 150.000 persone in apprendistato professionalizzante che, statisticamente, fanno parte dei contratti full-time a tempo indeterminato ma che, nel conreto, hanno una retribuzione che si aggira attorno al 50% di quella contrattuale di riferimento. Quindi, quasi certamente al di sotto dei 15.000. Occorre infine aggiungere, anche se poco rilevanti dal punto di vista statistico, 30.000 prestazioni occasionali che, per definizione, non possono superare i 5.000 euro annuali.

Si tratta di circa 5.250.000 posizioni lavorative, che però in molti casi possono fare capo allo stesso contribuente: è il caso di contratti a termine che si sommano nel corso dell’anno, di part-time che si cumulano, di contratti a termine che si sommano con contratti stagionali, e così via, portando così il reddito sopra la soglia dei 15.000. Analogamente verso la parte bassa della fascia è evidente che vi siano titolari di contratti a termine o part-time con talmente poco orario lavorativo da restare, grazie anche al gioco delle detrazioni, nella no tax area. Così com'è probabile che in no tax area si trovino lavoratori cui il part-time o il tempo determinato viene applicato sulle retribuzioni dei numerosissimi “contratti pirata”, nonché lavoratori che percepiscono parte della retribuzione in nero. Al netto di queste collocazioni all’interno della no tax area e del cumulo tra diverse attività , è verosimile che i 5.250.000 lavoratori sopra individuati si riducano ai 4.326.000 di lavoratori dipendenti versanti IRPEF su redditi da 15mila euro, e che la composizione di questo gruppo di contribuenti sia quella descritta sopra. 

 

Salari, povertà e dichiarazioni dei redditi ai fini IRPEF

Quanto coincide quest’area con quella dei working poor? Eurostat classifica come tali coloro la cui retribuzione è inferiore ai 2/3 della retribuzione globale mediana, cioè quella equidistante tra la più alta e la più bassa (non media, quindi): sulla base dei dati Job Pricing Salary Outlook del 2019, la retribuzione mediana in Italia era 21.020 euro annui, il cui 66% è pari a 13.873 euro. Una soglia abbastanza vicina ai fatidici 15.000. Se si considera quest'asticella realistica per l’area dei working poor, si ottine che la consistenza di questa categoria, per quanto concerne il lavoro operaio, era nell'anno in esame pari al 19,7%. Una percentuale che, tuttavia, non  tiene conto del reddito familiare ma solo di quello individuale: è evidente che l’indice di povertà delle famiglie di lavoratori dipendenti è inferiore. Non sono disponibili dati specifici, ma il reddito medio delle famiglie nel 2019 era poco inferiore ai 32.000 euro annui (contro i 25.686 dei salari individuali) e nel 44% delle famiglie vi era più di un occupato. Tuttavia, senza che questo voglia rappresentare uno spaccato della povertà nella società italiana, resta il fatto che quasi il 20% dei salari rientra in una fascia che possiamo accettabilmente definire “salari poveri”.

A partire da questa constatazione occorre fare alcune puntualizzazioni: innanzitutto, non sono poveri i salari contrattuali, ma quelli che prevedono un orario lavorativo diverso dal full-time a tempi indeterminato. Non sono quindi i salari contrattuali (risultato del CCNL e della contrattazione aziendale) a determinare i working poor, ma le prestazioni part-time e discontinue. Il che rende di complessa realizzazione l’ipotesi di un salario minimo legale come rimedio alla working poverty: stabilire un minimo orario avrebbe un effetto marginale per part-timer e discontinui, a meno di fissare livelli talmente alti da risultare incompatibili per i contratti ordinari. Fissare minimi mensili tali da superare la soglia di povertà renderebbe impraticabili una gran parte dei contratti a termine e part-time che non sono necessariamente sinonimo di sfruttamento, ma spesso vano anche incontro all'esigenza dei lavoratori di tenere insieme lavoro e altri impegni.

In realtà non esistono soluzioni amministrative, ma soltanto percorsi di crescita dei salari in un contesto di sviluppo economico. La crescita salariale può essere contrattata, a livello nazionale e/o aziendale soltanto se è connessa a una forte ripresa dei fondamentali dell’economia e in particolare della produttività. E, allo stesso tempo, una crescita economica è il solo fattore che può sollecitare un aumento strutturale della domanda di lavoro (piuttosto degli incentivi fiscali e contributivi che strutturali non possono essere) e, quindi, marginalizzare e ridurre a una quota fisiologica contratti discontinui e a tempo parziale. 

In questo contesto un contributo utile e realistico alla soluzione del problema potrebbe essere quello di avviare una diffusa campagna di contrattazione aziendale e/o territoriale per estendere e rafforzare i premi di produttività ridiscutendo contestualmente l’organizzazione del lavoro e gli organici.  

Claudio Negro, Centro Studi e Ricerche Itinerari Previdenziali e Fondazione Anna Kuliscioff

 

15/12/2021

 
 

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