Dove metto il TFR? Valutare il rendimento finanziario

Destinare il Trattamento di Fine Rapporto al fondo pensione o lasciarlo in azienda? È una delle domande troppo spesso sottovalutate dal lavoratore ma che invece, nel lungo periodo, rappresenta una decisione importante sotto molti aspetti, anche dal punto di vista finanziario

Niccolò De Rossi

Trattamento di Fine Rapporto e la sua destinazione. Molti lavoratori, durante la propria carriera, avranno fatto i conti almeno una volta con questo tema. Non solo, si saranno imbattuti - più o meno approfonditamente - sulla convenienza o meno di optare per una delle due soluzioni: TFR in azienda o al fondo pensione. Complice una contenuta educazione finanziaria e previdenziale che continua a caratterizzare il Paese,  la questione rimane tutt’oggi una zona d’ombra per i più e, di conseguenza, complica la scelta che il nostro ordinamento consente di effettuare. Partiamo allora dal riferimento normativo per dare un inquadramento di massima e contestualizzare l’argomento. 

Il Decreto Legislativo 252/2005 ha introdotto per la prima volta, a partire dall'1 gennaio 2007, la possibilità di scegliere se lasciare il TFR (Trattamento di Fine Rapporto) in azienda o se destinarlo alla previdenza complementare. Senza entrare nei dettagli delle possibilità che si hanno a disposizione e per i quali si rimanda al testo del decreto, può essere utile tentare di “spacchettare” l’annoso dilemma e affrontarlo per macro-temi, cercando di valutare le differenze riscontrabili tra le due opzioni. Premettendo che non esiste una risposta “giusta” o “sbagliata” e valida in assoluto per tutti, è utile esaminare gli elementi che consentono di prendere la decisione in modo consapevole, non da ultimo l’aspetto del rendimento finanziario ottenibile dalla destinazione del proprio TFR.

In prima battuta è bene precisare che destinare il proprio TFR maturando a una forma di previdenza complementare non dà diritto alla contribuzione aggiuntiva da parte del datore di lavoro. Al contrario, sfruttando l’adesione a un fondo pensione destinandovi il proprio TFR e aggiungendo la propria contribuzione, si vedrà versato allo stesso fondo anche una percentuale aggiuntiva a carico dell’azienda. In questo caso, quindi, la scelta porta a un primo beneficio (considerabile come una percentuale di reddito aggiuntivo il cui utilizzo sarà differito nel tempo, tipicamente al momento dell’erogazione della prestazione pensionistica) che, altrimenti (vale a dire lasciando il TFR in azienda), non si avrebbe.

A questo punto però è utile rispondere a una domanda che consente di analizzare più approfonditamente uno degli elementi della questione: come viene rivalutato il TFR se scelgo di lasciarlo in azienda piuttosto che destinarlo alla previdenza complementare? Attenzione, perché la differenza potrebbe essere più rilevante di quanto si possa pensare, soprattutto se si considera un arco temporale di lungo periodo (l’intera carriera lavorativa). Il TFR, se lasciato in azienda, viene rivalutato in misura prestabilita al tasso del 1,5% + il 75% del tasso di inflazione al dicembre dell’anno precedente. In questo primo caso, il Trattamento di Fine Rapporto beneficia pertanto di una forma di “remunerazione” garantita (l’1,5%) e da una variabile (il 75% dell’inflazione). La quota “fissa” sarà quella che ricoprirà il peso maggiore sulla rivalutazione finale, anche perché gli ultimi anni hanno registrato una dinamica inflattiva debole. Oltretutto, avere un’inflazione elevata non è auspicabile, seppur nella storia si siano verificati periodi di iperinflazione soprattutto a margine dei grandi conflitti mondiali. 

Nel secondo caso, versando il proprio TFR maturando alla previdenza complementare, il lavoratore accede all’opportunità di vedere il proprio Trattamento di Fine Rapporto remunerato in base all’andamento dei mercati finanziari. Viene di conseguenza inevitabilmente meno la “garanzia” di avere almeno una rivalutazione pari all’1,5% (a meno che non si scelga un comparto di investimento nel fondo pensione che restituisca un rendimento minimo garantito), ma dall’altra parte la scelta consente di partecipare al rialzo dei mercati finanziari e godere di rendimenti di lungo periodo potenzialmente più elevati. Da quanto detto si evince che un elemento che influisce sulla convenienza o meno di aderire a una forma di previdenza complementare risiede nella corretta scelta della linea di investimento dove far confluire il proprio TFR.

Anche qui, inevitabilmente, non potrà esserci una regola uguale per tutti, ma dipenderà, in particolare, dalla personale propensione al rischio e dall’età dell’aderente. Sotto questo aspetto, infatti, un giovane che è entrato da poco nel mondo del lavoro dovrebbe optare per un comparto di investimento che presenti un profilo di rischio più elevato, poiché statisticamente i mercati finanziari, nel lungo periodo, presentano rendimenti positivi di cui si potrà beneficiare per molti anni e, al contempo, avere abbastanza tempo per compensare eventuali ribassi degli stessi. Viceversa, un lavoratore che si avvicina alla quiescenza avrà l’esigenza di ridurre la propria esposizione al rischio per consolidare e non intaccare il capitale accumulato. 

Per avere una più rapida evidenza di quanto detto, osservando i rendimenti conseguiti dalle forme di previdenza completare rilevate dalla COVIP tra il 2009 e il 2019 tratte dalla Relazione Annuale 2019, si evince che mantenere il TFR in azienda sia stata una scelta tendenzialmente svantaggiosa in termini di rendimento finanziario. 

Figura 1 - Fondi pensione e PIP "nuovi", rendimenti netti medi annui composti

Fonte: Relazione Annuale 2019 COVIP

Prendendo come riferimento il rendimento a 10 anni, la rivalutazione del TFR (quindi quella ottenuta mantenendo lo stesso in azienda) si ferma al 2%, a fronte di un rendimento che oscilla tra il 3,6 e 3,8% per le forme di previdenza complementare. 

In definitiva, seppur la rivalutazione del TFR non rappresenta l’unico elemento che serve per compiere la propria scelta, sapere che i dati restituiscono una tale evidenza consente di avere un elemento valutativo in più per effettuare la propria scelta. Pecunia non olet.

Niccolò De Rossi, Centro Studi e Ricerche Itinerari Previdenziali

6/8/2020

 
 

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