"Fumo di Londra": incertezze e possibili soluzioni per i gestori inglesi dopo la Brexit

Dopo la Brexit "con deal" i gestori inglesi diventeranno soggetti extracomunitari e, in quanto tali, non potranno più gestire fondi pensione, né essere delegati. A meno che…

Francesco Paolo Crocenzi

Poco dopo la pubblicazione di questo contributo sulla Brexit, la CONSOB ha diramato giovedì 26 marzo un “Richiamo di Attenzione” sulle operazioni degli intermediari inglesi in Italia che, salvo nuovi sviluppi, cambia in modo sostanziale lo scenario delineato nell’articolo. 

Una simile evenienza era già stata evocata nell’articolo con l’inciso: “Segnalo per completezza che la procedura di autorizzazione CONSOB è esperibile in assenza di provvedimenti di riconoscimento da parte dell’Unione europea, che ad oggi non sono stati emessi” nel primo periodo della trattazione della “prima domanda”. 

In particolare, nel primo dei tre “Richiami di attenzione” (il n. 3/20), la CONSOB afferma che la procedura di autorizzazione ex articolo 28 del Testo Unico della Finanza (“TUF”), citata nell’articolo su Brexit come base giuridica per la possibilità per un gestore inglese di gestire un fondo negoziale, NON potrà essere avviata prima della fine del 2020 poiché fino al 31 dicembre prossimo – che è il periodo transitorio del “deal” – la Commissione potrà emanare il “provvedimento di riconoscimento” citato nell’articolo. In presenza di tale provvedimento di riconoscimento, le imprese britanniche potranno essere iscritte in un registro dell’ESMA dopo una istruttoria di 180 giorni lavorativi, decorsi i quali le stesse imprese potranno operare in Europa in libera prestazione di servizi. 

Se la Commissione europea non si pronuncerà entro la fine dell’anno sulla equivalenza della normativa inglese con quella comunitaria, continua la CONSOB, allora solo in quel momento le imprese britanniche potranno presentare alla stessa CONSOB l’istanza di autorizzazione ex articolo 28 del TUF. Ma se il 31 dicembre 2020 cessa anche il periodo transitorio durante il quale - in forza del “deal” e, soprattutto, del “provvidenziale” Comunicato Stampa del MEF del 30 gennaio 2020 - gli intermediari inglesi potevano continuare a operare in Italia, allora dall'1 gennaio 2021 essi diventeranno “fuorilegge” e non potranno più proseguire i loro servizi “cross border” in Italia, almeno fino a quando la CONSOB non li avrà autorizzati ex articolo 28 del TUF, ma come sappiamo la procedura dura normalmente quattro mesi.

Pertanto, allo stato, l’unica soluzione per rispettare il termine del 31 dicembre e garantire la continuità delle autorizzazioni è che la Commissione europea riconosca l’equivalenza del diritto finanziario inglese a quello comunitario nelle prossime due/tre settimane e che subito dopo un’impresa inglese faccia istanza all’ESMA per poter sperare di essere autorizzata ad operare in Europa nei 180 giorni lavorativi successivi, entro la fine dell’anno; in particolare, per potersi completare in 180 giorni lavorativi, una procedura (considerando solo i sabati e le domeniche ma non gli altri giorni festivi) dovrebbe partire l’11 maggio!

Francamente, non credo che la dichiarazione di equipollenza del diritto finanziario inglese sia in cima alle priorità della Commissione nelle prossime settimane, e quindi, a meno che vi siano modifiche nella tabella di marcia, è molto difficile che i mandati dei gestori inglesi ancora in essere alla fine dell’anno possano continuare ad essere eseguiti.

Queste modifiche alla tabella di marcia presuppongono dei chiarimenti su quello che la Commissione intende fare nei prossimi due-tre mesi, e seguiremo da vicino eventuali sviluppi.


Alla fine, il divorzio tra UE e Regno Unito è arrivato il 31 gennaio 2020. Ed è stato consensuale, con un accordo, il famoso (o fumoso!) deal, su cui molti non avrebbero scommesso data la nazionalità di chi trattava per la UE e la personalità della sua controparte britannica.  

Per quanto paradossale, il fatto che vi sia stato il deal ha comportato maggiori problemi rispetto a una uscita senza accordo, la cosiddetta “no-deal". L’Italia si era infatti preparata a quest’ultima evenienza con il DL 25 marzo 2019, n.22, convertito in L.20 maggio 2019, n.41 (di seguito per brevità “DL 22”), il quale aveva introdotto un periodo transitorio di diciotto mesi dalla Brexit – originariamente prevista per fine marzo 2019 – nel corso del quale gli intermediari finanziari britannici avrebbero potuto continuare a svolgere le loro attività in Italia come se fossero stati ancora dei soggetti comunitari.

L’uscita con deal ha invece reso inapplicabile il DL 22, espressione del potere normativo nazionale, e ha riportato la regolazione dei servizi degli intermediari inglesi nella competenza dell’Unione europea, appunto esercitata con l’accordo UE/GB. Sul punto, il deal è purtroppo molto vago: si limita infatti ad affermare che il Regno Unito continuerà a essere assoggettato alle norme dell’Unione durante un periodo transitorio.Questo significa che, durante tale periodo, gli intermediari inglesi potranno continuare a godere del mutuo riconoscimento come i loro omologhi UE? Personalmente e professionalmente non confermerei mai questa interpretazione, e siccome la mia visione – o preoccupazione - era condivisa da molti, il MEF ha emanato il provvidenziale Comunicato stampa n.19 del 31 gennaio 2020,  con il quale il Ministero ha detto in sostanza che l’Italia interpreterà il deal come se i soggetti britannici godessero ancora del mutuo riconoscimento fino alla fine del periodo transitorio.   

Garantita l’operatività immediata, dobbiamo considerare cosa succederà dopo e, in particolare, la sorte degli attuali gestori inglesi di fondi negoziali dopo la fine dell’anno, e se questi potranno concorrere per nuovi mandati. Per completezza, il periodo transitorio potrebbe essere esteso a dopo il 2020 previo accordo tra UE e Regno Unito, ma è evidente che le gravi contingenze in cui ci troviamo mentre scrivo non rendono ragionevole contare sul completamento in tempo utile di una trattativa in questo senso, ammesso che ve ne sia anche la volontà politica. 

Assumendo quindi che il giorno del giudizio sarà il 31 dicembre 2020, le due questioni da esaminare in relazione al nuovo status di entità non-UE dei gestori inglesi sono le seguenti:

  • il quadro normativo italiano permette a un gestore inglese di assumere (o mantenere) l’incarico di gestore principale di un fondo pensione negoziale? Se sì, a quali condizioni?
     
  • è possibile che il gestore principale di un fondo pensione negoziale deleghi un gestore inglese?
     

Per quanto riguarda la prima domanda, la risposta è a mio avviso affermativa, subordinatamente a quanto appresso specificato. In particolare, l’articolo 28 del Testo Unico della Finanza (D. Lgs. n.58 del 1998, nel seguito, “TUF”) prevede che “le imprese di Paesi terzi diverse dalle banche”, tra le quali rientrano i gestori del Regno Unito, possono, previa autorizzazione della CONSOB, prestare servizi di investimento a clienti professionali di diritto italiani (oltre che a controparti qualificate) senza stabilire succursali in Italia, cioè direttamente da Londra. Segnalo per completezza che la procedura di autorizzazione CONSOB è esperibile in assenza di provvedimenti di riconoscimento da parte dell’Unione europea, che a oggi non sono stati emessi.

I clienti professionali di diritto sono gli istituzionali che compaiono nell’elenco della MiFID, recepito dalla CONSOB nel proprio Regolamento Intermediari (n. 20307 del 2018), e sono diversi dai clienti professionali su richiesta. Per quanto ci riguarda, i fondi pensione negoziali sono clienti professionali di diritto, mentre le Casse di previdenza possono diventare clienti professionali su richiesta, e quindi a esse non si applica quanto detto nel presente contributo.

La procedura di autorizzazione per gli intermediari non-UE è regolata dal citato Regolamento Intermediari CONSOB e dura un massimo di 120 giorni – salvo interruzioni per richieste di chiarimenti o integrazioni. In caso di accoglimento dell’istanza da parte della CONSOB, l’impresa non-UE viene autorizzata a prestare in Italia i servizi di investimento per i quali ha fatto domanda. 

Se questo è vero, non possono esservi dubbi sul fatto che un soggetto inglese autorizzato a svolgere la gestione di patrimoni dopo l’iter davanti alla CONSOB rientri anche esso – al pari di SIM, SGR e banche italiane - nel novero dei “soggetti autorizzati all’esercizio dell’attività di cui all’articolo 1, comma 5, lettera d), del decreto legislativo 24 febbraio 1998, n. 58” citati dall’articolo 6, comma 1, lettera a) del D. Lgs 252 del 2005 (“D Lgs 252”), ai quali può essere affidata la gestione di fondi pensione. Infatti, dal momento che sia i citati soggetti italiani sia gli intermediari non-UE hanno completato delle procedure di autorizzazione davanti alle medesime Autorità, con uguali modalità e tempistiche e presentando gli stessi documenti, una discriminazione a danno dei secondi per quanto riguarda l’ascrivibilità alla categoria dei “soggetti autorizzati” di cui all’art. 6 del D Lgs 252 non avrebbe alcun fondamento giuridico: sarebbe come dire che alcune autorizzazioni sono meno “autorizzatorie” di altre…

Fin qui le considerazioni in punto di diritto. Operativamente, occorrerà quindi che la CONSOB autorizzi gli intermediari inglesi, e che la COVIP condivida il nostro ragionamento. 

Sul secondo punto non posso ovviamente parlare per questa Autorità, tuttavia ci si può aspettare che essa dia il giusto valore alle argomentazioni giuridiche portate a sostegno della tesi dell’uguale valore delle autorizzazioni concesse dalle Autorità italiane ai fini dell’applicabilità dell’art.6 del D Lgs 252. 

Per quanto riguarda le autorizzazioni CONSOB, in considerazione della durata di centoventi giorni, le relative procedure dovrebbero essere avviate nei mesi di luglio-agosto per poter essere probabilmente completate entro il 31 dicembre, e cioè la fine del periodo transitorio. Essendo luglio e agosto non proprio mesi di picco delle capacità operative, ed in considerazione del fatto che molti operatori esteri, non familiari con il quadro normativo italiano, potrebbero decidere solo all’ultimo momento di avviare la procedura, vi è il rischio di creare ingorghi con conseguenti ritardi che, se protratti all’anno nuovo, darebbero luogo a serie incertezze giuridiche in merito alla prosecuzione dei mandati in essere.

Per evitare ciò, la CONSOB potrebbe considerare l’istituzione una corsia preferenziale per le domande di autorizzazione ex art.28 del TUF presentate dagli intermediari britannici. Ciò per il semplice motivo che per tutto il 2020 questi ultimi saranno ancora soggetti alle stesse norme MiFID dei loro omologhi italiani e comunitari in forza del deal (per il quale, lo ricordiamo, il Regno Unito resta soggetto alla legislazione comunitaria durante il periodo transitorio post-Brexit). E quindi apparirebbe irragionevole, e in contrasto con i principi di economia dei mezzi giuridici e istruttori a cui il TUF si conforma, il sottoporre dei soggetti che sono ancora di fatto comunitari alle stesse procedure e indagini previste per operatori di giurisdizioni con ben altre criticità e problemi di trasparenza e tutela degli investitori. 

D’altra parte, c’è da osservare che a partire dal giorno dopo la fine del periodo transitorio il Regno Unito potrebbe azzerare la propria normativa derivata dalla MiFID e diventare una specie di porto franco: ciò è sicuramente vero, ma in questo caso la CONSOB ha il potere di revocare l’autorizzazione avvalendosi dei poteri di intervento ex post previsti dal TUF e le sue norme di attuazione, come l’art.12, comma 1, lettera c) del Regolamento Intermediari ai sensi del quale l’autorizzazione è revocata se vengono meno le condizioni a cui era subordinato il suo rilascio. 

Concludendo sulla prima domanda, quindi, sarebbe auspicabile che la COVIP rifletta e esprima una posizione certa sul fatto che l’“autorizzazione” alla gestione ottenuta da un intermediario di un Paese terzo abilita a gestire un fondo pensione ex articolo 6 del D Lgs 252 al pari di SIM, SGR e banche nazionali; da parte sua, la CONSOB potrebbe considerare che la domanda di autorizzazione presentata nel corso dell’anno da un intermediario britannico, ancora soggetto MiFID sotto tutti gli aspetti, non richiede certo la stessa attività istruttoria di entità di Paesi con sistemi giuridici non comparabili al nostro.  

Per quanto riguarda la seconda domanda, e cioè se un gestore di un fondo negoziale possa delegare un intermediario non-UE, il tema è complesso per le stesse circostanze esposte nella questione precedente, e cioè che tra i “Paesi terzi” c’è di tutto…

Esistono tuttavia degli argomenti che possono indurre a una riflessione in merito alla generale congruità e attualità del vigente requisito secondo il quale il gestore delegato di un fondo negoziale deve avere gli stessi requisiti del gestore principale, e conseguentemente sulla possibilità di introdurre alcune circostanziate eccezioni. Una simile riflessione non può che partire dalla COVIP, in quanto la prescrizione in esame non si trova in alcuna legge o regolamento ministeriale, ma in un atto di questa Autorità, e cioè lo schema di convenzione per la gestione delle risorse di fondi negoziali del 1998 (punto 5-bis delle Premesse). 

Da un punto di vista sistematico, il principio del pari passu tra gestore principale e delegato dà luogo a una singolare asimmetria di trattamento, in cui le maggiori cautele sono previste nei rapporti con chi in teoria ne avrebbe meno bisogno. Mi riferisco ai mandati di gestione delle Casse di previdenza, da un lato, e dei fondi negoziali, dall’altro: nel primo caso, il gestore nazionale o comunitario può delegare un soggetto non-UE, nel secondo caso no. Il risultato è abbastanza paradossale se si considera che le Casse sono di per sé clienti al dettaglio (che possono optare per diventare professionali su richiesta), mentre come noto i fondi negoziali sono clienti professionali di diritto.  

La riflessione di cui sopra non appare tuttavia decisiva, dal momento che non cambia l’assunto che, in generale, la COVIP deve trattare tutti i Paesi terzi allo stesso modo. Quindi, l’Autorità deve necessariamente attuare in prima istanza un livellamento in cui il parametro di riferimento non sono le giurisdizioni con i sistemi normativi più simili al nostro, ma quelle che presentano le maggiori carenze normative e/o che non cooperano efficacemente con le altre Autorità.

Tuttavia, un approccio più pragmatico porta anche a considerare che non tutti i Paesi terzi sono una sorta di “buco nero” in termini di normativa e vigilanza. Al riguardo, basta pensare alle norme che regolano la delega della gestione di una Cassa di previdenza ad un asset manager di un Paese terzo: tale soggetto non può appartenere a una giurisdizione qualsiasi, ma a una Paese che risponde a precisi requisiti direttamente stabiliti dalle norme della UE, come l’articolo 78, comma 3 del Regolamento 231 del 2013 per la gestione collettiva e, in un ambito più prossimo al nostro, l’articolo 32 del Regolamento 565 del 2017, che è il Regolamento di attuazione della MiFID II.  Questi requisiti sono che l’intermediario del Paese terzo sia autorizzato o registrato per svolgere il servizio di gestione nel proprio Paese di origine, sia soggetto a una vigilanza “efficace”, e che esistano accordi di cooperazione fra le Autorità italiane e quelle dello Stato terzo.

Andando oltre, per essere ancora più pratici: quanti sono questi Paesi terzi ai cui intermediari si può pensare di delegare la gestione di una Cassa di previdenza? Per essere molto larghi, cinque-sei al massimo, tra cui gli Stati Uniti e il Regno Unito.  

Quindi non si chiede alla COVIP di ammettere tutto il mondo, ma solo quel ristretto numero di Paesi che già opera in Italia in forza della normativa MiFID. Il fatto che, seguendo un approccio formalistico, la COVIP non sia essa stessa parte degli accordi di cooperazione con le Autorità dei Paesi terzi di cui è già parte la CONSOB non dovrebbe essere un aspetto ostativo atteso che, per fortuna, esiste invece una collaborazione tra le Autorità nazionali. Di talché la COVIP e la CONSOB potrebbero elaborare delle procedure per far sì che eventuali richieste di informazioni sull’operato dei gestori delegati dei Paesi terzi siano azionate dalla CONSOB per conto della COVIP, ma ciò rimarrebbe un aspetto interno italiano atteso che, per la controparte estera, si tratta di un servizio di investimento per il quale è competente la CONSOB. 

Da quanto sopra esposto non si chiede pertanto di superare il principio generale che il gestore delegato debba avere lo stesso status di quello primario, ma solo di introdurre delle eccezioni costituite dagli intermediari dei Paesi che già rispondono ai requisiti previsti dalla normativa comunitaria generale (si tratta di Regolamenti direttamente applicabili) in materia di gestione collettiva e su base individuale. 

Quanto sopra non tanto per filantropia nei confronti degli operatori anglosassoni, ma per garantire una efficace gestione delle risorse dei fondi negoziali, evitando brusche interruzioni o frettolose ridomiciliazioni onshore. Divieto o non divieto, infatti, la “fabbrica” centrale dell’attività di gestione dei maggiori gestori esteri che operano in Italia è e resterà negli USA o nel Regno Unito. Quindi, domiciliare formalmente un gestore in territorio UE non cambierebbe certo questo stato di cose, ma renderebbe invece più complicata, meno verificabile e probabilmente meno efficiente la filiera della gestione, con potenziali danni per il soggetto nazionale gestito. 

Per cui, diamo a Cesare quel che è di Cesare!  

Avv. Francesco Paolo Crocenzi, Studio Legale Crocenzi e Associati

19/3/2020 (modificato il 30/3/2020)

 
 
 

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