Il mito del gender gap pensionistico

SOS pensioni rosa, in aumento il gender gap. È questo il messaggio d'allarme lanciato dai principali media sul tema delle pensioni dopo la pubblicazione dei dati INPS relativi al primo semestre 2021. Eppure, un'analisi più approfondita aiuterebbe a indagarne le ragioni e sfatare il falso mito

Michaela Camilleri

"Cresce la disuguaglianza pensionistica di genere, lo scarto tra gli importi medi degli assegni sale di 33 euro rispetto al 2020”. “Nuove pensioni, donne penalizzate: 500 euro in meno degli uomini”. “Ma quale bonus figli?! Essere donna ti costa ancora 500 euro sulla pensione”. Alcune delle principali testate giornalistiche riportavano così la notizia della pubblicazione dei dati INPS relativi ai flussi di pensionamento nel primo semestre dell’anno. E, sintetizzando un documento di 125 pagine, lanciavano all'unisono un messaggio d’allarme per le pensioni delle donne, concentrando l’attenzione sull’aumento del cosiddetto gender gap pensionistico. Ma è davvero così? O, meglio, quali sono le ragioni che conducono a questi numeri? Un’analisi più approfondita aiuterebbe a comprendere meglio il significato di questi valori.

Partiamo dai dati INPS: nei primi sei mesi di quest'anno lo scarto tra l'importo medio degli assegni previdenziali percepiti dagli uomini (pari a 1.429 euro) e quello delle lavoratrici (931 euro) è stato di 498 euro, circa 33 euro in più di quello registrato a fine 2020. Eppure, quello del gender gap è uno dei luoghi comuni più diffusi in materia pensionistica, come ben spiegato in un altro articolo di approfondimento che riprende i dati rielaborati nell’Ottavo Rapporto sul Bilancio del Sistema Previdenziale italiano, redatto dal Centro Studi e Ricerche Itinerari Previdenziali e presentato lo scorso febbraio. Le ragioni individuate dagli autori del Rapporto sono molteplici: dal maggior numero di pensioni pro capite percepite dalle donne, alla tipologia di prestazione ricevuta che implica un minor importo pensionistico (come nel caso delle pensioni di reversibilità o delle prestazioni assistenziali), passando per la condizione lavorativa delle donne, la cui discontinuità impatta sulle carriere e sui livelli retributivi e, di conseguenza, contributivi. Troviamone ora riscontro nei dati.

La premessa è doverosa: il Rapporto evidenzia come nel 2019 le donne rappresentassero il 51,9% dei pensionati, ma percepissero il 43,9% dell’importo lordo complessivamente erogato per pensioni (168.884 milioni di euro sono pagati agli uomini e 132.023 milioni alle donne); sempre con riferimento al 2019, sul totale delle prestazioni erogate – previdenziali, assistenziali e indennitarie – le donne mostrano un reddito pensionistico medio pari a 15.857 euro, reddito che nel caso degli uomini sale invece a 21.906 euro. Un divario che trova dunque reale riscontro nei numeri ma del quale spesso non vengono analizzate le motivazioni, dando spazio a imprecisioni e alimentando falsi miti.

Come rilevato da Itinerari Previdenziali, innanzitutto le pensionate registrano solitamente un maggior numero di prestazioni pro capitein media 1,51 a testa contro le 1,32 degli uomini. Nel dettaglio, le donne rappresentano il 58,5% dei titolari di 2 pensioni, il 68,8% dei titolari di 3 pensioni e il 71% dei percettori di 4 e più trattamenti. Prevalgono nel caso di pensioni ai superstiti (87,2%) e di prestazioni prodotte da “contribuzione volontaria”, solitamente modeste a causa di bassi livelli contributivi; le donne percepiscono anche l’82,8% dei trattamenti minimi e sono le principali beneficiarie dell’importo aggiuntivo, delle maggiorazioni sociali (75,7%) e della quattordicesima mensilità. Inoltre, occorre considerare che, in qualità di beneficiarie di pensioni di reversibilità di lavoratori autonomi e di pensionati di vecchiaia con prestazioni integrate al minimo, percepiranno al massimo il 60% della pensione diretta.

Affermare dunque, con un’elementare operazione di divisione, che le donne ricevono prestazioni inferiori agli uomini è sì corretto dal punto di vista formale ma non da quello sostanziale. Sarebbe quantomeno utile una comparazione tra prestazioni della medesima tipologia (anzianità su anzianità, vecchiaia su vecchiaia e così via). Tanto più se si considera che la situazione del sistema previdenziale italiano non fa che riflettere l’andamento del mercato del lavoro il quale, malgrado segni di lento e progressivo miglioramento, si caratterizza tuttora e soprattutto nel Mezzogiorno per tassi di occupazione (33,2% le donne contro il 56,6% degli uomini) e livelli retributivi poco favorevoli alle lavoratrici e, di conseguenza, alle pensionate. 

Ancora una volta, allora, il vero tema riguarda il comunicare in maniera corretta la questione affinché si comprenda che la soluzione al gap pensionistico tra i generi non va ricercata all’interno del sistema previdenziale, ma in un avanzamento della condizione lavorativa femminile, attraverso misure e servizi, come quelli all’infanzia, che riducano la discontinuità delle carriere.

Michaela Camilleri, Centro Studi e Ricerche Itinerari Previdenziali

4/8/2021

 
 

Ti potrebbe interessare anche