Pensioni sopra i 4.000 euro netti al mese, alcune osservazioni sulla proposta di ricalcolo

A fronte di un beneficio economico pari, nella più ottimistica delle ipotesi, a 330 milioni di euro, la proposta di ricalcolo delle pensioni sopra i 4.000 euro netti al mese (o 80.000 euro lordi l’anno) presenta diverse criticità, innanzitutto di tipo tecnico. I numeri delle pensioni interessate, le gestioni coinvolte e le possibili difficoltà di calcolo: cosa emerge dall’analisi a cura del Centro Studi e Ricerche Itinerari Previdenziali 

Mara Guarino

L’ipotesi annunciata di un ricalcolo delle cosiddette pensioni d’oro, a lungo dibattuta lo scorso mese di luglio e culminata nella proposta di legge presentata alla Camera dai deputati D’Uva e Molinari, merita un’attenta considerazione, e non solo per la sua rilevanza nel dibattito pubblico delle ultime settimane. Muovendo dall’analisi realizzata dall’approfondimento a cura del Centro Studi e Ricerche Itinerari Previdenziali, esaminiamo la proposta partendo dai dati e, ancora prima, da una doverosa premessa.
 
Presupposto fondamentale dal quale muovere è infatti che il ricalcolo dovrebbe riguardare le pensioni e non i pensionati. Una precisazione nient’affatto scontata se si considera che ci sono effettivamente molti pensionati che ricevono due o più prestazioni (il rapporto è oggi di 1,43) e che, soprattutto, la proposta di legge pare invece andare nella direzione opposta stabilendo che “in caso di titolarità di più pensioni, il ricalcolo vada applicato alle quote retributive del reddito pensionistico complessivo lordo superiore a 80 mila euro”. Una strada, tuttavia, difficilmente percorribile soprattutto se si guarda non tanto al caso delle pensioni di reversibilità o invalidità (comunque non conteggiate dall’ipotesi governativa) quanto a quelle finanziate con contribuzioni aggiuntive (fondi integrativi, accordi bilaterali, etc).
 
Ma di quante e quali prestazioni stiamo dunque esattamente parlando? Considerando i dati relativi all’1/1/2016 (ultimi dati disponibili INPS, riservate le serie relative alle pensioni vigenti), il documento stima che le pensioni da 4.000 euro netti al mese (per 13 mensilità) siano circa 58.000, pari allo 0,37% del totale (circa 16 milioni). Se, come previsto, il ricalcolo fosse esteso alle pensioni da 80.000 euro lordi l’anno in pagamento dall’1/1/2019 si salirebbe a 74.000. Guardando invece al numero dei pensionati, come pare erroneamente fare la proposta di legge, il numero salirebbe a 80.000 già al netto di reversibilità, invalidità e prestazioni erogate a vittime del dovere o di azioni terroristiche. In termini di costi, la somma delle prestazioni superiori ai 4.000 euro netti al mese “pesa” invece per circa 7,4 miliardi di euro (dati 2016 rielaborati): su 290 miliardi di erogazioni totali, comprendenti quindi tutte le prestazioni anche di tipo assistenziale e integrate, si tratterebbe di “ricalcolare” il 2,5% circa del totale della spesa per pensioni e assistenza.
 
Per quanto riguarda invece il “profilo” dei pensionati interessati, le stime dello studio evidenziano come circa il 6,5% di queste pensioni sopra i 4.000 euro netti al mese sarebbero erogate dalle Casse Privatizzate, collocandosi nel concreto al di fuori dal perimetro governativo; il 51,5% proverebbero dalla Pubblica Amministrazione (esercito, magistrature, prefetti, corpo diplomatico e dipendenti dello Stato e degli Enti locali), per la quale peraltro i dati contributivi relativi agli ultimi 5-10 anni risultano non di rado di difficile reperimento, mentre il restante 42% sarebbe da ripartire tra da ex INPDAI, lavoratori dipendenti, fondi speciali e altre gestioni Inps, anche in questo caso oltretutto con “buchi” di sistema sui nastri contributivi, con il conseguente rischio di fondare eventuali ipotesi di ricalcolo su stime azzardate.  Venendo invece all’età di pensionamento dei percettori, lo studio calcola che circa un 30% sia andato in pensione, per motivi personali, perché dimissionato dal datore di lavoro al raggiungimento dei prerequisiti, o per il raggiungimento dei 40 anni di servizio (oltre i quali, va ricordato, i contributi versati in regime retributivo non producono alcun aumento del proprio assegno pensionistico) prima dei 60 anni; poco meno del 30% si sarebbe pensionato, per le stesse ragioni, tra i 60 e i 65 anni, mentre poco più del 40% si è pensionato dopo i 65.
 

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Dai dati Itinerari Previdenziali emerge dunque una prima evidenza: il ricalcolo sarebbe un’operazione difficile e rischiosa, innanzitutto per ragioni puramente tecniche. Ad esempio, come fare per quelle posizioni di cui non si conosce nel dettaglio il nastro contributivo? E, anche ammesso di conoscerlo, perché e come stabilire in modo arbitrario i coefficienti di trasformazione applicare? O ancora come ponderare i fattori che hanno portato il percettore al pensionamento, avvenuto del resto mentre era in vigore una diversa normativa previdenziale?
 
Domande che conducono inevitabilmente a riflettere, su due punti di eguale e fondamentale importanza. Il primo tema riguarda per l’appunto la concreta fattibilità esecutiva della proposta che, come ben evidenziato dall'approfondimento, così come formulata fa emergere anche molte perplessità e criticità da superare in merito alla corretta applicazione della tecnica attuariale. Il secondo tema riguarda invece il profilo di costituzionalità del provvedimento. Al netto di qualunque valutazione etica sulla messa in discussione della certezza del diritto, ancor di più in un ambito in cui la fiducia dei cittadini è essenziale, applicare un ricalcolo a queste prestazioni pensionistiche implicherebbe una rimodulazione delle “regole” in modo retroattivo che presterebbe certamente il fianco a possibili ricorsi, sino a portare appunto la questione dinanzi alla Corte Costituzionale (con buone prospettive di successo). 
 
E, in ogni caso, quali sarebbero i possibili benefici economici dell’operazione? Volendo comunque valutarne l’impatto, le simulazioni di calcolo di Itinerari Previdenziali ipotizzano un ricavo totale pari a circa 582 milioni per il primo anno. Tenendo tuttavia conto sia del numero di pensionati dopo i 65 anni (il 40% dei soggetti interessati), per i quali la penalizzazione dovrebbe essere pressoché prossima allo zero, sia dei tagli ai liberi professionisti, i cui proventi dovrebbero a rigor di logica spettare alle Casse Privatizzate, nonché del fatto che il ricalcolo si potrà difficilmente applicare i alle pensioni solo poco più alte delle soglie di “abbattimento” (al di sotto delle quali non è infatti possibile scendere), è più plausibile che il ricavo totale si attesti al massimo sui 330 milioni di euro. Senza peraltro considerare i costi dell’operazione stessa e gli oneri di eventuali ricorsi.
 
Il tutto, poi, all’insegna di un vero paradosso che solleva infine anche un problema di equità: ad esempio, tra le categorie maggiormente penalizzate spiccano, oltre a donne e lavoratori precoci, pensionati d’anzianità che hanno lungamente contribuito nel corso della propria carriera. Viceversa, il ricalcolo “risparmierebbe” – come sottolinea l'approfondimento – categorie che hanno tratto  ampio beneficio dal metodo retributivo. Ad esempio, perché tagliare pensioni sopra i 4.000 euro in pagamento da 20 anni e non prestazioni pensionistiche sopra i 3.000 in pagamento da oltre 30 (baby pensioni, prepensionamenti, esodi, etc?) Eppure, come evidenza il Centro Studi e Ricerche Itinerari Previdenziali, i numeri non sono di poco conto: basti pensare che, al gennaio di quest’anno, risultano in pagamento presso l’INPS circa 760 mila prestazioni (comprese quelle dei dipendenti pubblici ex INPDAP) da 37 anni e più, i cui beneficiari sono uomini e donne andati in pensione nel lontano 1980 o ancor prima.

Mara Guarino, Centro Studi e Ricerche Itinerari Previdenziali

29/8/2018

 
 

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