A proposito della riforma 4+2: perché è giusto sostenere gli ITS

Malgrado un'accoglienza timida, la legge istitutiva della filiera tecnologica professionale voluta dal Ministro Valditara si può considerare un passo avanti in quel processo di valorizzazione degli ITS di cui necessita il nostro Paese. Per un vero cambio di rotta, serve però una battaglia (in primis culturale) sull'importanza della formazione per il lavoro

Tiziana Pedrizzi

La legge che istituisce la filiera tecnologica professionale voluta dal Ministro Valditara è stata approvata dalla Camera dei Deputati il 30 luglio con 156 voti favorevoli, 97 contrari e 19 astenuti: si tratta del primo passo di un cammino ancora abbastanza lungo che prevede due decreti attuativi, da emanare di concerto con altri ministeri e previa intesa con la Conferenza unificata delle Regioni, l’entrata in vigore delle disposizioni per l’attuazione entro la fine di dicembre come stabilito dal PNRR e l’allineamento della riforma con il sistema degli ITS Academy. Gli sbocchi degli allievi dei 4 anni potranno essere i corsi degli ITS Academy; si tratta però anche di un titolo di studio spendibile nel mondo del lavoro equiparato a un diploma quinquennale e soprattutto tale da consentire di iscriversi all’università. Prevista inoltre la creazione di campus  la cui funzione  sarà quella di costituire delle reti che colleghino istituti tecnici e professionali, CFP (Centri di Formazione Professionale) che erogano la formazione IeFP (Istruzione e Formazione Professionale), e ITS Academy.

Dal punto di vista della struttura del sistema, l’aspetto forse più importante di queste nuove norme è la valorizzazione degli ITS  che diventano il tratto terminale di un percorso organico. Da un lato, in questo modo, si “tira su” tutto il sistema della oggi deprezzata formazione per il lavoro, dotandola del tratto terminale e aumentando così la sua attrattività nei confronti dei segmenti di domanda più qualificati. Dall’altro, si dà all’Italia un nuovo tipo di formazione terziaria che - come ha recentemente ricordato anche Sabino Cassese sulle pagine del Corriere della Sera - è quello che ci manca a confronto con gli altri Paesi europei che ne sono dotati. È così – e non per la più alta percentuale di universitari in senso tradizionale - che questi Paesi raggiungono più alte percentuali di giovani che ottengono titoli di formazione terziaria, definiti impropriamente all’italiana  “universitari”. Distinguo che la stampa italiana generalista, nota per la sua competenza e il suo interesse nei confronti del campo dell’educazione, spesso ignora felicemente.

La legge può dunque essere considerata come un tentativo di rivalorizzare la formazione per il lavoro, dopo decenni in cui è stata demonizzata e messa in un angolo, sia da una parte della destra più legata alla tradizione che dall’estrema sinistra, sia pure per ragioni diverse. Unificante però la diffidenza tutta italiana verso il lavoro. Le accuse uscite in quest’occasione sono le solite, soprattutto – almeno una novità! - sulla presenza del termine “addestramento”. Poiché attraverso TikTok siamo diventati tutti dei Fred Astaire (il vintage è voluto) e grazie ad Instagram dei Picasso, tutto ciò che esula dalla “creatività” nella formazione sembrerebbe indicatore di subordinazione alle mire dello sfruttamento capitalistico. E imparare a fare bene un’operazione (manuale ma anche intellettuale) un attentato alle libertà. Se i soliti avversari non mancano, sono i sostenitori che sembrano latitare. Qualche uscita dal mondo della IeFP (Istruzione e Formazione Professionale), ma molto guardinga anche perché molta parte di questo mondo ha messo in questi anni più a fuoco il recupero, lodevolissimo dei livelli più bassi e in forte tentazione di drop out, piuttosto che guardare al segmento medio, che è il vero target che dà maggiore credibilità e prestigio erga omnes. La costruzione di un percorso formativo che si conclude con un pezzo di terziario (gli ITS) può vantare  una struttura più completa e più appetibile da parte dei livelli medi.

Fra i sindacati si sente alzarsi forte la posizione della CGIL, che, forse anche per la sua crescente politicizzazione legata agli orientamenti e mire della dirigenza, ha assunto oramai quelle che erano le tradizionali posizioni della sinistra estrema. Si dimentica in questo, come in altri campi, tutto il patrimonio cosiddetto riformista degli anni Novanta e dei primi Duemila che pure è stato in termini di cultura politica molto interessato a valorizzare la cultura del lavoro. Per non parlare poi del fatto che questa cultura è stata alla base degli orientamenti del giovane movimento operaio e, tuttora, anche in alcuni Paesi europei, lo rimane. Ma anche gli altri sindacati sembrano tiepidi o piuttosto assenti, quantomeno nelle riprese che ne fa la carta stampata. La quale ha in questi ultimi periodi privilegiato posizioni e tendenze radicalizzanti sopra indicate. Come se ci fosse un complesso di colpa o comunque di inferiorità nel difendere apertamente le ragioni di una cultura del lavoro dalla prospettiva dei lavoratori. Per non parlare delle parti datoriali che non sembrano esenti da quella sottovalutazione dell’istruzione e della cultura caratterizzante il nostro Paese, che pullula di scrittori ma latita di lettori. Da una parte, lamentano che addirittura il 47% delle offerte di lavoro andrebbero disattese, dall’altra non sembrano esporsi significativamente – sia pure con gli eventuali opportuni distinguo – nell’argomentare la loro necessità di provvedimenti similari. 

Non è forse chiaro che la continua crisi della istruzione tecnica e professionale degli ultimi due decenni, a partire dalla diminuzione delle iscrizioni a favore dell’afflusso nei licei leggeri da parte di settori consistenti di piccola borghesia, è alle origini di questa carenza? Frutto del costante battage dei sostenitori della cultura alta, teorica e “disinteressata” per tutti, che sta in realtà dietro al nostro record europeo di NEET (il 27% in Sicilia). Ma purtroppo forse un ruolo importante in questa latitanza ce l’avrà la scarsa propensione del mondo imprenditoriale italiano a difendere in modo adeguato le proprie ragioni, ponendole come interesse della produttività del Paese nel suo complesso e non tanto come interesse all’accumulazione di profitti. La chiusura costante e crescente delle attività produttive verso la deindustrializzazione sembra dimostrare che non è l’Italia il Paese in cui si accumulano i grandi capitali che polarizzano le ricchezze. Ma che qui si tratta degli eredi rentiers delle tanto conclamate iniziative imprenditoriali individuali, frutto del “genio italico”, che poi sfociano nella divisione di quanto accumulato dal capostipite con frequente vendita a proprietà estere e dirottamento dei cespiti verso la finanza […]. 

Non manca certo la disponibilità ormai consolidata delle iniziative produttive  concrete  alla alternanza scuola lavoro - ora ribattezzata PCTO dalla sensibilità grillina - che ha permesso da decenni il diffondersi di questa utile attività nel Nord e anche in parte del Centro. Manca invece il coraggio della valorizzazione della cultura del lavoro che solo organismi centralizzati e di alto livello possono dare. E non solo le loro rappresentanze giovanili e settoriali. Certo, non è facile combattere contro il disinteresse e  l’ostilità verso la cultura del lavoro che porta spesso all’esaltazione delle abilità dei semianalfabeti, così mirabilmente liberi da condizionamenti e inquadramenti culturali! Ciò poteva forse essere sufficiente nei felici periodi premoderni ma forse non lo è più in tempi di intelligenza artificiale. L’impressione è che la voce dei nostri - rimanenti - capitani di industria non si senta a sufficienza.

L’egemonia della cultura marxista nel nostro Paese è stata (ahimè) sostituita da quella della cultura dei diritti individuali, con una confluenza evidente con la ispirazione pre e anticapitalistica, anche in chiave di certo cattolicesimo. Il cattolicesimo lombardo e in parte veneto e piemontese, profondamente legato alle ragioni della produzione in chiave emancipatoria e comunitaria, anche perché influenzato dal protestantesimo delle nazioni circonvicine, è stato un’eccezione che negli ultimi periodi è andata quasi sparendo, come testimoniano le caratteristiche delle figure di riferimento egemoni nel campo politico al Nord e la semi-sparizione della vecchia grande imprenditoria lombarda. È appunto come se un complesso di colpa impedisse di articolare le proprie ragioni a voce alta e pertanto di alzare voci autorevoli in difesa delle necessità di un filone formativo autorevole per il lavoro.

Il fatto è che le ristrutturazioni curriculari più sofisticate, l’utilizzo delle metodologie più adeguate e anche le tentazioni più appetibili come l’accesso diretto all’università e la quadriennalità difficilmente potranno da sole portare a un riorientamento della domanda in termini di concrete iscrizioni senza una battaglia culturale sulla formazione per il lavoro da parte, in primo luogo, delle organizzazioni dei lavoratori e anche delle organizzazioni datoriali. A meno che non si debba aspettare una crisi economica su larga scala nell’Occidente tutto e in Italia, quale quella che si sta prospettando

Tiziana Pedrizzi per la Fondazione Anna Kuliscioff

21/8/2024

 
 

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