Cosa dobbiamo temere del coronavirus?

Dalla messa in discussione della governance comunista al drastico calo della produzione industriale, passando per l'impatto sui mercati finanziari e le zone cuscinetto “virus-free” per le consegne di PizzaHut: ecco gli impatti del coronavirus al di là delle preoccupazioni per la nostra salute, legittime ma (forse) aizzate dai media

Giovanni Gazzoli

Neanche il tempo di riprendersi dall’uccisione di Suleimani, e il 2020 ha offerto una crisi globale come non se ne vedono spesso: un’epidemia virale con lo spettro di una pandemia. Se la pericolosità del coronavirus è fuori discussione, non lo è altrettanto la sovraesposizione mediatica di cui è stata oggetto, come dimostra questa infografica di State Street Global Markets.

Figura 1 - La copertura mediatica della diffusione di quattro diverse epidemie in rapporto al tempo trascorso

Copertura mediatica coronavirus

Questo trattamento ha certamente contribuito alla grande incertezza con cui ciascun attore – Stati, aziende e singoli cittadini – ha risposto a questo evento. Al di là della questione puramente sanitaria, dunque, è interessante affrontare tre ambiti fortemente “infettati” dal virus: quello politico, quello economico e quello sociale.

Il primo ha a che fare con la governance e la sua capacità sia di risposta sia di efficienza ed efficacia della risposta stessa. Ci sono stati tutti gli spettri di reazione, dalla sottostima che ha caratterizzato i primi comunicati dell’OMS (errore che la stessa Organizzazione ha ammesso) alla chiusura totale dei collegamenti aerei del governo italiano, che ha suscitato l’irritazione di Pechino, con il portavoce del Ministro degli Esteri che ha chiesto una valutazione "obiettiva, razionale e fondata sulla scienza".

Ma il soggetto più al centro dell’attenzione è proprio la Cina, e il partito comunista che la governa. L’effettiva sovrapposizione tra apparato statale e governance di partito ha generato un sostanziale immobilismo nel rispondere: avendo timore di generare scontento nel vertice superiore, molti responsabili hanno confessato la difficoltà a prendere decisioni immediate, come una crisi del genere richiede. Inoltre, c’è un tema di controllo popolare che sta scoppiando e che potrebbe essere stato innescato dalla morte di Li Wenliang, il medico-martire che aveva denunciato il pericolo ma era stato perlopiù snobbato: il partito sta disperatamente cercando di censurare i social come Weibo, dove spopolano post e cinguettii quali “Il governo di Wuhan deve a Li Wenliang delle scuse” e “Vogliamo la libertà di espressione”. Una reazione pericolosa per Xi Jinping, soprattutto agli occhi del mondo intero che guarda: se non riesce a gestire la propria gente, come può ergersi a paladino del mondo, come sta cercando di fare da qualche anno a questa parte?

C’è poi una seconda dimensione, non meno grave della prima, ed è quella economica. Peraltro, è legata a quella politica proprio dal fatto che la Cina è nel pieno della trattativa sulla guerra commerciale con gli USA. L’accordo raggiunto nella fase 1 avrebbe dovuto generare un boom di export che subirà chiaramente dei ritardi rispetto alla data del 15 febbraio, giorno in cui sarebbe entrata in vigore la sospensione di ulteriori tariffe alle merci cinesi in cambio di acquisti dagli USA in ambito agricolo, energetico e manufatturiero, nonché una revisione delle norme sulla proprietà intellettuale in favore dei beni tecnologici americani.

Ebbene, questa epidemia non solo sta mettendo in ginocchio l’economia cinese, che già versava in una situazione non proprio florida, ma avrà un impatto negativo sul PIL mondiale, tanto che Goldman Sachs ha previsto per il 2020 una crescita del -0,3%, assestandosi dunque a +3,25% rispetto al +3,1% del 2019.

Questa difficoltà si vede soprattutto su due settori: quello energetico e quello automobilistico, ossia due mercati tra i più indicativi della salute dell’economia e del commercio. Per quanto riguarda il primo, si prevede che il consumo interno di petrolio calerà del 25% nel solo mese di febbraio a causa del blocco dei trasporti e delle attività industriali: essendo la seconda economia del mondo, ciò si traduce in dimensioni considerevoli, nell’ordine dei 3,2 milioni di barili al giorno rispetto a febbraio 2019 (un calo equivalente a circa il 3% della domanda globale). In merito a quello automobilistico, si è registrata la chiusura di moltissime fabbriche: una ricerca di IHS Markit ha previsto la riduzione della produzione di 350mila veicoli nei primi tre mesi dell’anno. Se gli impianti dovessero rimanere chiusi fino a metà marzo – come alcuni analisti sembrano far intendere - la riduzione si alzerebbe a 1,7 milioni di unità, ossia un terzo delle stime di produzione di inizio anno.

È naturale che tutto ciò abbia ripercussioni sui mercati finanziari. Ci si aspettava un collasso, eppure l’iniezione di liquidità della banca centrale cinese ha stabilizzato il mercato sia interno che, di conseguenza, internazionale. Inoltre, c’è fiducia sul fatto che la crisi sia passeggera, e per quanto influente, non comprometterà la capacità di crescita cinese. È comunque presto per valutare se i titoli abbiano superato l’esame dell’epidemia, e sicuramente tanto dipenderà dalla diffusione o meno del contagio e dalla piena ripresa delle attività economiche (e non solo).

Per quanto riguarda l’Italia, infine, il virus avrà un impatto economico soprattutto nei settori turistici e del lusso: è facile intuire come il blocco dei trasporti sia micidiale, sia per i molti turisti sia per gli addetti ai lavori che, ad esempio, non potranno partecipare alla settimana della moda di Milano, fruita via streaming.

Per finire, è curioso un terzo aspetto non propriamente immediato. Una volta concluso l’allungamento delle festività per il capodanno cinese, prima temporanea misura di risposta alla crisi, le autorità hanno dovuto arrendersi alla necessità di coniugare la ripresa dell’attività lavorativa con il rischio del contagio interpersonale. Pertanto, una soluzione si è stagliata all’orizzonte, lo smart working. Il tutto in un contesto estremamente interessante, essendo coinvolti milioni di lavoratori: un banco di prova molto importante.

Ebbene, finora il test è stato fallito, o quantomeno non del tutto superato. Il traffico extra causato dalle decine di milioni di lavoratori ha letteralmente ingolfato i canali delle applicazioni dedicate, da DingTalk di Alibaba a WeChat Work di Tencent per citare le due più diffuse, che già dalle 9 di mattina erano in difficoltà per le molte richieste di videoconferenze. Una situazione sotto osservazione anche per il business diretto del videoconferencing, stimato in circa 6,7 miliardi di dollari a livello globale nel 2025. Se dunque lavorare da casa non è più un lusso ma una necessità, quello che è l’esperimento di smart working più grande al mondo evidenzia anche la minaccia del virus d un altro modello innovativo di lavoro, ossia gli spazi di coworking: questi negli ultimi anni si erano moltiplicati nelle metropoli cinesi, soprattutto per il vertiginoso innalzamento degli affitti e per l’esplosione delle start up del mondo tecnologico.

Infine, registrano un nuovo originale input anche le società di food delivery. Per evitare il contatto tra i rider e i clienti, si stanno studiando delle zone “cuscinetto”, in cui depositare la merce che venga poi successivamente ritirata dal consumatore finale: dei veri e propri “contactless delivery service”, sperimentati in primis da KFC e PizzaHut. I corrieri individueranno una zona di consegna, per poi osservare da una distanza di circa 10 metri il ritiro da parte del cliente.

Giovanni Gazzoli, Centro Studi e Ricerche Itinerari Previdenziali 

14/2/2020

 
 
 

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