Economia non osservata ed evasione: confermata la lenta riduzione del fenomeno

Gli ultimi dati disponibili sembrano confermare la tendenza alla contrazione dell'economia sommersa e dell'evasione fiscale e contributiva nel medio periodo: il fenomeno è quindi in lento ridimensionamento, ma incidono sul biennio di rilevazione le circostanze straordinarie della pandemia

Bruno Bernasconi

La Relazione annuale 2023 sull’economia non osservata e l’evasione fiscale e contributiva del MEF ha confermato la tendenza a una lenta ma progressiva riduzione del fenomeno fino a un minimo nel 2020, dato che però va letto tenendo in considerazione le circostanze straordinarie dovute alla crisi pandemica.

A ogni modo, per inquadrare al meglio il tema, occorre innanzitutto partire dalla definizione di economia non osservata adottata dal documento, ossia l’insieme delle attività economiche che, per motivi differenti, sfuggono all’osservazione statistica diretta. Le sue principali componenti sono il sommerso economico e l’economia illegale, a cui si aggiungono il sommerso statistico (dovuto a inefficienze informative) e l’economia informale, che include le attività produttive svolte in contesti poco o per nulla organizzati, basati su rapporti di lavoro definiti nell’ambito di relazioni personali o familiari e non regolati da contratti formali.

Sulla base dei conti nazionali, il valore aggiunto generato dal sommerso economico evidenzia una tendenza decrescente a partire dal 2018, culminando con una flessione del 14,5% nel 2020 a 157,3 miliardi di euro. Come anticipato, quest'ultimo anno è stato caratterizzato dal fermo delle attività economiche indotto dalle misure per contrastare la pandemia da COVID-19, determinando una contrazione del PIL a prezzi correnti pari al 7,5%. Tuttavia, anche rapportando il valore aggiunto generato dal sommerso economico al Prodotto Interno Lordo, si conferma la tendenza decrescente con un’incidenza in discesa dal 11,2% del 2017 al 9,5% del 2020. 

La distribuzione dell’economia sommersa per settore di attività evidenzia come la sua incidenza sul valore aggiunto complessivo risulti particolarmente elevata nel terziario e in particolare nelle altre attività dei servizi, dove nel 2020 si attesta al 34%, nel commercio, trasporti, alloggio e ristorazione (22,1%), nelle costruzioni (19,3%), nell’agricoltura, silvicoltura e pesca (16,9%) e nelle attività professionali, scientifiche, tecniche (11,0%). A livello territoriale, invece, nel 2020 l’incidenza dell’economia non osservata rimane molto alta al Sud, dove rappresenta il 16,8% del complesso del valore aggiunto con una punta massima nazionale in Calabria (18,8%), seguita dal Centro dove il peso si attesta al 12%, mentre le quote raggiunte nel Nord-Est e nel Nord-Ovest, pari rispettivamente al 9,8% e 9,2%, risultano inferiori alla media nazionale. 

 

Evasione fiscale e contributiva

Le stime del sommerso economico non consentono però di quantificare direttamente le entrate complessivamente sottratte alla finanza pubblica dall’evasione fiscale e contributiva. Per tale ragione è utile analizzare l’andamento del tax gap, ossia il divario tra le imposte e i contributi effettivamente versati e quelli che i contribuenti avrebbero dovuto versare.

In media, per il triennio 2018-2020 il gap complessivo risulta di circa 96,3 miliardi di euro, di cui 84,4 miliardi di mancate entrate tributarie e 11,9 miliardi di mancate entrate contributive, influenzato però in modo significativo dalla riduzione in valore assoluto registrata nell’anno d’imposta anomalo 2020 a causa delle molteplici forme di esenzione e agevolazione fiscale a seguito dello shock pandemico. In particolare, il gap complessivo 2020, tributario e contributivo, risulta pari a 86,9 miliardi di euro, con una riduzione di 12,7 miliardi rispetto al 2019, di cui circa 76 miliardi di sole entrate tributarie (-11 miliardi). 

 

L’evoluzione del fenomeno

La serie storica dei dati del tax gap degli ultimi 20 anni, limitata alle principali imposte che incidono sul mondo delle imprese e del lavoro autonomo (IRAP, IVA, IRES e IRPEF da lavoro autonomo e impresa), mostra invece che la media annuale tra il 2001 e il 2020 in Italia si attesta intorno agli 80,5 miliardi di euro, con una riduzione tra inizio e fine periodo relativamente modesta, di circa 15 miliardi, pur evidenziando significative oscillazioni tra i diversi anni. 

Figura 1 - Tax gap in Italia anni 2001-2020, dati in milioni di euro

Figura 1 - Tax gap in Italia anni 2001-2020, dati in milioni di euro

Fonte: Relazione annuale 2023 sull'economia non osservata e l'evasione fiscale e contributiva, MEF

La parte più rilevante del gap è comunque sempre stata rappresentata dall’IVA, con una media di 33,6 miliardi all’anno, sebbene dal 2018 in poi sia stata superata dall’evasione IRPEF, anche grazie ai vari provvedimenti introdotti, come split payment, fatturazione elettronica, corrispettivi telematici, oltre alla crescente diffusione delle transazioni tramite POS.

L’analisi del gap sul PIL nominale, invece, rivela che l’entità dell’evasione rispetto al PIL si è attestata su un livello stabilmente più basso dal 2007 in poi: in particolare, considerando gli anni 2001-2006 il valore medio è 6%, mentre nel 2007-2020 il valore medio scende al 4,8%, con una fase di contrazione a partire dal 2014 che continua fino al 2020 (tax gap su PIL pari a 3,9%).

Infine, il rapporto tra imposta evasa e imposta potenziale mette in evidenza l’evoluzione della propensione al gap, una proxy dell’attitudine dei contribuenti a non adempiere agli obblighi fiscali e la misura più adatta per analizzare se e in che misura il recupero di evasione sia dovuto ad un miglioramento del comportamento dei contribuenti. Come risulta dai dati degli ultimi 20 anni, la propensione al gap si è ridotta a una media del 32,2%, passando dal 34,2% nel 2001 al 28,7% nel 2020. Per quanto riguarda i mancati versamenti, pur occupando da sempre un ruolo marginale nel computo complessivo dell’evasione, sia la loro entità in valore assoluto sia la propensione dei cittadini a dichiarare le imposte senza versarle sono andate sistematicamente aumentando, forse complici anche le varie “paci fiscali” varate a più riprese dai diversi governi. Negli ultimi 20 anni l’ammontare dei mancati versamenti passa da meno di 6 miliardi a circa 14 miliardi nel 2019 (i dati per il 2020 sono ancora provvisori), mentre la percentuale di mancati versamenti sul tax gap complessivo passa da circa il 7% a circa il 22%. 

In un quadro che appare in miglioramento, le circostanze eccezionali dell’anno di COVID-19 esortano però a valutare con cautela i risultati complessivi. In particolare, la stima della propensione al gap, calcolata attraverso il rapporto tra il tax gap in valore assoluto e il gettito potenziale, si riduce di un punto percentuale nel 2020, raggiungendo il picco minimo del 17,3%, con una differenza rispetto al 2019 (18,3%) dovuta quasi totalmente all’IVA, mentre aumenta la propensione al gap per l’evasione dell’IRPEF. Pertanto, l’effetto complessivo è dovuto prevalentemente alla variazione dei pesi del gettito potenziale di ciascuna imposta rispetto al totale. In altre parole, se il peso dell’imposta potenziale IRPEF non si fosse ridotto a causa dello choc pandemico, l’incremento della propensione al gap di questa imposta avrebbe avuto un impatto ben maggiore sulla propensione al gap complessiva.

 

I dati 2021 

La tendenza a una riduzione del fenomeno è confermata però anche dagli ultimi dati Istat, secondo cui nel 2021 il valore aggiunto generato dall’economia non osservata si è attestato a 192 miliardi di euro, segnando una crescita del 10% rispetto all’anno precedente, sostanzialmente in linea con la dinamica del PIL (+9,7%) e mantenendo quindi un’incidenza costante al 10,5%, rispetto all’11,3% osservato nel 2019. 

Figura 2 - Le componenti dell'economia non osservata

Figura 2 - Le componenti dell'economia non osservata

Fonte: Istat

Entrando più nel dettaglio, il complesso dell’economia sommersa nel 2021 vale 173,9 miliardi di euro, in aumento di 16,5 miliardi rispetto al 2020 ma con un’incidenza sul PIL stabile al 9,5%. La componente legata alla sotto-dichiarazione vale 91,4 miliardi mentre quella connessa all’impiego di lavoro irregolare è pari a 68,1 miliardi (erano, rispettivamente, 79,7 e 62,4 miliardi l’anno precedente). 

Per quanto riguarda il ricorso al lavoro non regolare da parte di imprese e famiglie, caratteristica strutturale del mercato del lavoro italiano, nel 2021 sono 2 milioni e 990mila le unità di lavoro a tempo pieno (Ula) in condizione di non regolarità, occupate in prevalenza come dipendenti (circa 2 milioni e 177mila unità), segnando una crescita del 2,5% rispetto al 2020 senza però recuperare la considerevole caduta registrata in corrispondenza della crisi pandemica (-18,4%) e che sembra segnalare un ridimensionamento del fenomeno.

Infine, nel 2021 le attività illegali hanno generato un valore aggiunto pari a 18,2 miliardi di euro, pari all’1,1% del PIL, incluso l’indotto, ossia il valore dei beni e servizi legali utilizzati nei processi produttivi illegali. Rispetto al 2020, quando le misure restrittive messe in atto per contrastare la pandemia avevano comportato una contrazione dell’economia illegale, si è registrata una ripresa del fenomeno, con un aumento del 5% (pari a 0,9 miliardi di euro). Nonostante la crescita dell’ultimo anno, nel periodo 2018-2021 le attività illegali hanno mostrato una contrazione di 1,1 miliardi del valore aggiunto e di 0,8 miliardi della spesa per consumi finali, con una decrescita media annua, rispettivamente, dell’1,9% e dell’1,3%. 

Bruno Bernasconi, Centro Studi e Ricerche Itinerari Previdenziali

30/10/2023

 
 
 

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