Il dilemma dell'energia nel conflitto russo-ucraino

Il 24 febbraio ha cambiato il mondo e ha riportato indietro le lancette dell'orologio, ai tempi in cui l'energia era un problema politico e geopolitico e non ambientale

Gianluca Ansalone

Un anno fa compravamo il gas a 20 euro per megawattora, ora siamo arrivati a punte di 220 euro. Se consideriamo che i prezzi di oggi trascinano quelli di domani e dopodomani, per avere una riduzione sensibile  dovremo aspettare la primavera del 2023 (ovviamente in uno scenario di guerra non prolungata).

Nel 1980 l’Italia produceva 18 miliardi di metri cubi di gas all’anno e ne consumava 40 (22 arrivavano dall’export). Oggi la produzione nazionale è precipitata a 3 miliardi di metri cubi contro 70 di consumi. Trenta miliardi circa vengono proprio dalla Russia.  La realtà è che per la fine del 2022 possiamo immaginare di dimezzare la quota russa a 15 miliardi. Azzerarla no, salvo voler decidere poi un razionamento, per le imprese energivore e per il riscaldamento domestico. Ciò che il premier Mario Draghi ha chiamato "un'economia di guerra". 

Ciò a cui stiamo opportunamente assistendo in queste settimane è un frenetico tentativo della diplomazia italiana di favorire nuove scorte e acquisire nuovi contratti in vista del prossimo inverno, poiché quello sarà il momento più critico. Al momento, nonostante la diversificazione, non abbiamo alternative a quei 15 miliardi russi e alla riattivazione delle centrali a carbone. 

A noi dunque la scelta politica, all'ordine del giorno nelle prossime riunioni dei vertici europei. Putin di certo non romperà gli accordi unilateralmente, la Russia li ha in piedi da 50 anni, dai tempi dell’Eni di Mattei; una volta rotti questi accordi non si ricostruiscono più o comunque mai alle stesse condizioni. Va tenuta sempre nella massima considerazione anche la seconda parte dell'equazione: lo stesso Putin infatti si sta attrezzando da molto tempo a non avere l’unico sbocco possibile per il gas verso l’Europa. Il gasdotto “Power of Siberia 1” verso la Cina è già operativo e altri due sono in cantiere. L’accordo sul secondo gasdotto è stato annunciato da Gazprom e Pechino nel giorno dei primi colloqui con l’Ucraina in Bielorussia. Porterà in Cina 55 miliardi di metri cubi, esattamente la capienza del Nord Stream 2 verso la Germania che è stato sospeso dopo l’inizio del conflitto.

Il punto è che lo snodo cruciale geopolitico e finanziario per la Russia è proprio e solo il gas. Tutte le altre sanzioni avranno un effetto importante ma limitato. Con i rialzi di queste settimane la Russia ha moltiplicato i suoi introiti per nove, ha una liquidità gigantesca. 

Questo scenario riguarda prevalentemente l'Europa, a cui Gazprom fornisce il 40% del gas complessivo. USA e UK sono in una condizione completamente diversa dal Vecchio Continente perché sono indipendenti. La rivoluzione dello shale gas negli USA  è stata un punto di non ritorno nella politica energetica, militare ed estera americana. Storicamente l’Europa ha scelto la dipendenza da Russia e Nord Africa per mere questioni di prezzo. Dieci anni fa gli USA pagavano il gas 100 dollari, l’Europa 150. Se avessimo comprato da altre fonti, ad esempio quello liquido da Qatar o Nigeria, ci sarebbe costato 300 (per il trasporto e la rigassificazione). 

Il nostro imperativo strategico dunque è diversificare. Ma come?

Dall’Adriatico potremmo ricavare al massimo 3 miliardi di metri cubi. Dall’Algeria portiamo a casa parecchio, e nel mese di febbraio Algeri è diventata il nostro primo fornitore. Se si mettessero a regime le produzioni di Algeria e Libia avremmo una bella boccata d’ossigeno ma, come noto, la situazione nei due Paesi non è tranquilla. Di certo importiamo dal Qatar gas liquefatto, ma i rigassificatori sono solo tre e peraltro lavorano al 75% della capacità. Sono in corso trattative con Mozambico e Angola ma di nuovo per avere gas liquido. L’Azerbaijan potrebbe raddoppiare il flusso del TAP perché non c’è bisogno di nuove linee ma solo di stazioni di compressione. E poi ci sono ovviamente le rinnovabili, con tempi però sappiamo molto lunghi e resa molto bassa (oggi coprono l’11% del nostro fabbisogno). Infine il tabù del nucleare, che andrà affrontato ma che avrà comunque tempi lunghi. 

D’ora in poi qualsiasi no a un rigassificatore, a una trivella, a una pala eolica sarà un sì alla Russia. Questa è la dimensione politica dell’energia dopo il 24 febbraio. 

Non c’è dubbio che dobbiamo confermare la neutralità climatica al 2050 come Europa. Ma l’Italia è in condizioni diverse da UK, Spagna (che ha 7 rigassificatori), Olanda e Germania che producono discrete quantità di gas. Ci serve un percorso ordinato che ci porti al traguardo, lontano da un isterismo green. Così come dobbiamo prevedere infrastrutture europee e capacità negoziali uniche di Bruxelles, come è accaduto per i vaccini anti-COVID.

Gianluca Ansalone, Docente di Geopolitica, strategia e sicurezza e
autore di "Geopolitica del contagio"

 

28/3/2022

 
 
 

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