UE, globalizzazione e politiche commerciali

Le risposte a problemi economici derivanti da dinamiche globali non possono passare attraverso una minore apertura a scambi internazionali: gli effetti (e le relative contromisure) della globalizzazione tra luci e ombre

Antonio Villafranca

Oggi in tutto il mondo si moltiplicano le voci di chi critica la globalizzazione. La stessa Unione europea viene attaccata per il fatto di spingere i suoi Paesi membri ad aprirsi al commercio internazionale e a cavalcare, piuttosto che subire, la globalizzazione stessa. Malgrado queste critiche, non si possono però dimenticare i risultati positivi che la globalizzazione ha permesso di conseguire. 

Ha infatti creato una ricchezza senza precedenti nei Paesi occidentali e, dopo la caduta del blocco sovietico e l’adesione della Cina al WTO, su scala PIL ‘globale’. Ciò si è tradotto in una crescita dei commerci mondiali passati da 5,5 trilioni di dollari nel 1998 a poco meno di 18 trilioni del 2018 e in un aumento del PIL mondiale del 157% nello stesso periodo. Le barriere al libero commercio sono state ridotte al minimo, tanto che anche oggi in cui soffiano venti di guerre commerciali tra Usa e Cina, i dazi nel mondo sono al minimo storico (anche se sono in aumento le barriere non tariffarie).

Ricordare gli impressionanti risultati raggiunti tramite la globalizzazione è quanto mai opportuno per difenderne la capacità di generare ricchezza. Ma non vanno tuttavia sottovalutati gli effetti negativi che questa ha contribuito a causare e che danno voce a movimenti e partiti euroscettici e nazionalisti. Oggi infatti le disuguaglianze di reddito, le distanze tra i più ricchi e i più poveri, aumentano ovunque nel mondo globalizzato. E aumentano anche nell’Unione europea, dove però sono meno marcate non solo rispetto ai Paesi in via di sviluppo, ma anche rispetto alle economie mature come gli Stati Uniti o come il Regno Unito in corso di Brexit. Il quadro è aggravato dalla crescita delle disparità regionali, ovvero le distanze tre le regioni più ricche e quelle più povere all’interno di ogni Paese. Un fenomeno in parte dovuto anche alle politiche dell’Ue che spingono verso una maggiore competizione all’interno del Mercato unico e a una crescente apertura agli scambi con il resto del mondo, come dimostrano i recenti accordi di libero scambio con la Corea del Sud, il Canada e il Giappone. Queste politiche tendono ad avvantaggiare le regioni più sviluppate, che hanno già le imprese più floride e competitive, godono di buone infrastrutture fisiche e digitali, hanno le migliori scuole e università per formare i futuri lavoratori, e attraggono il miglior capitale umano. L’Unione europea e le sue politiche economiche e commerciali vengono quindi accusate, anche con alcune buone ragioni, di aver quanto meno aggravato le disuguaglianze sia tra le persone che tra le varie regioni all’interno dei suoi Paesi membri.

Per superare questi effetti negativi bisogna agire sulle politiche di coesione dell’Unione, per le quali andrebbe speso di più e meglio. Solo il 34% del bilancio UE è rivolto alle politiche di coesione. Un bilancio che peraltro ammonta solo all’1% del Pil europeo. Cifre evidentemente troppo basse rispetto al fenomeno che intendono contrastare. Ma oltre alle risorse in bilancio, l’UE dovrebbe anche legare il più possibile le politiche di coesione a quelle commerciali. Ogni qualvolta a Bruxelles viene firmato un nuovo trattato di libero scambio nell’interesse di tutti i Paesi membri andrebbero considerati gli impatti non solo a livello settoriale ma anche a livello locale, attivando poi meccanismi di supporto verso quelle regioni – e i loro lavoratori - che subiscono gli effetti di una maggiore competizione internazionale. In altri termini, alle regioni che guadagnano di più da ulteriori aperture agli scambi internazionali potrebbero essere chiesto di contribuire di più rispetto a quelle regioni che ne sono toccate negativamente.

Le risposte a problemi economici che trovano origine principalmente in dinamiche globali non può passare attraverso una minore apertura agli scambi internazionali, né attraverso la riduzione del peso dell’Unione europea. Passa invece attraverso il rilancio dell’azione comune dell’Ue nella direzione di una attenuazione degli effetti negativi legati alla globalizzazione. Una ricetta necessaria per evitare che montino ancora i sentimenti e le richieste di chiusura entro i confini nazionali.

Antonio Villafranca, Research Coordinator
and Co-Head of the Europe and Global Governance Centre ISPI 

24/5/2019

 
 
 

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