DDL capitali, competitività delle imprese e sostegno all'economia reale

Il disegno di legge si pone l'obiettivo di promuovere la competitività del mercato finanziario italiano, facilitando l'accesso ai capitali per le PMI. Novità anche per gli enti previdenziali privatizzati cui viene estesa la qualifica di investitore professionale per promuovere l'indirizzamento di risorse verso l'economia reale

Bruno Bernasconi

Lo scorso maggio è stato avviato l’iter parlamentare per l’approvazione del DDL Capitali, un disegno di legge finalizzato a migliorare la competitività del mercato dei capitali italiano e a ridurre il gap dimensionale con gli altri Paesi europei, puntando a incentivare la quotazione di aziende, a diffondere l’azionariato di Borsa Italiana e ad ampliare la platea di intermediari finanziari. Nello specifico, il provvedimento intende, da una parte, rimuovere i vincoli, normativi e operativi, all’accesso al mercato da parte delle imprese, sostenendone la crescita; dall’altra, mira a introdurre misure che favoriscano, sia dal lato della domanda sia da quello dell’offerta, la canalizzazione del risparmio privato verso le imprese, assicurando al contempo la tutela degli investitori. 

L’iniziativa arriva dopo il Libro Verde sulla competitività dei mercati finanziari, un documento voluto dal MEF lo scorso anno, per tentare di arginare il fenomeno della fuga di molte società dai mercati regolamentati. In Italia, una buona parte delle imprese è diffidente circa la quotazione in Borsa, spaventate dalla complessità giuridica e dall’ingresso di una pluralità di soci, perdendo così notevole accesso ai capitali, opportunità di finanziamento e, in ultima analisi, di sviluppo. Nonostante alcune iniziative intraprese negli ultimi anni, come ad esempio i Piani Individuali di Risparmio (PIR), il nostro Paese continua infatti a mostrare alcuni significativi ritardi che frenano lo sviluppo del mercato dei capitali sia pubblico che privato, come testimoniano le difficoltà nella raccolta di risorse tramite processi di IPO e il “nanismo” della Borsa italiana rispetto a quelle europee per numero di società quotate e per capitalizzazione media e totale. Con particolare riferimento alla capitalizzazione media, le imprese quotate in Italia valgono circa la metà di quelle quotate a Parigi e quasi un terzo di quelle tedesche.

Le nuove norme, dunque, snelliscono le procedure del processo di quotazione, avvicinandosi alle disposizioni diffuse nelle altre piazze europee. Oltre a semplificare le procedure di ammissione alla negoziazione, il disegno di legge riduce gli oneri a carico delle aziende che intendono quotarsi ed estende la classificazione di “piccole e medie imprese” emittenti azioni quotate, innalzando il tetto della capitalizzazione massima da 500 milioni a un miliardo di euro, con l’obiettivo di allargare la platea, rendendo possibile la dematerializzazione delle azioni. In chiave europea, per rendere il voto plurimo in Italia più in linea con quanto accade in altri Paesi, è previsto l’aumento da 3 a 10 diritti di voto per azione in assemblea.

 

I numeri di Borsa Italiana

Lo scarso dinamismo del mercato dei capitali ha portato la Borsa Italiana a soffrire di un sottodimensionamento nei confronti delle altre piazze mondiali ed europee, accentuato negli ultimi anni da un numero elevato di delisting a fronte di poche quotazioni in numero assoluto, con una perdita di capitalizzazione complessiva stimata oltre i 50 miliardi di euro. Da inizio 2023, sono state 17 le nuove IPO contro 11 delisting (più l’annuncio di OPA finalizzate al delisting su altre 8 società), mentre a fine 2022 Piazza Affari contava un totale di 414 società quotate per una market cap totale di 662 miliardi di euro, a fronte delle 1.929 società per una capitalizzazione complessiva di 6.300 miliardi di Euronext, la principale Borsa Paneuropea di cui fa parte Milano, e ancora lontana dai 3.400 miliardi Parigi e i 1.300 miliardi di Amsterdam. 

Figura 1 - Le società quotate in Borsa: le dimensioni del mercato dei capitali italiano

Figura 1 - Le società quotate in Borsa: le dimensioni del mercato dei capitali italiano

Fonte: elaborazioni a cura del Centro Studi e Ricerche Itinerari Previdenziali

In particolare, al 31 dicembre dello scorso anno l’Euronext Milan, il mercato principale di Borsa Italiana, era costituito da 223 realtà con una market cap media di 2,9 miliardi di euro e una mediana di 350 milioni, per una capitalizzazione totale di 651 miliardi e con solo 80 società sopra il miliardo. Su Euronext Growth Milan, il mercato rivolto principalmente alle piccole e medie imprese (e spesso un passaggio intermedio prima del salto sul mercato principale), erano invece 190 le aziende quotate con una market cap media di 44 milioni e una mediana di 26 milioni, per una capitalizzazione totale di 10,6 miliardi di euro. 

Più nel dettaglio, dal 2009, anno di nascita dell’allora Aim oggi Egm, si sono quotate quasi 300 società, 196 quelle attuali tra delisting e passaggi al segmento Star, in crescita del 155% rispetto alle 77 del 2016 e con un’accelerazione delle IPO a 182 nel periodo 2017-2023 rispetto alle 86 del 2009-2016 (+112%). 

Numeri che, se da una parte offrono segnali incoraggianti, dall’altra restano ancora piuttosto esigui considerando che nel 2020 erano oltre 4,35 milioni le imprese attive sul territorio italiano, di cui il 95% di piccole dimensioni (massimo 9 addetti). Dato che ben descrive il tessuto imprenditoriale del nostro Paese, dove le PMI costituiscono la spina dorsale dell’economia, ed evidenziano come il provvedimento in esame rappresenti un primo passo di una politica industriale volta a supportare la crescita in Italia e all'estero delle nostre piccole e medie imprese, asse portante del Made in Italy.

Il limitato ricorso al mercato dei capitali, infatti, è in larga misura, il riflesso della struttura del sistema produttivo nazionale, dove il numero di imprese dimensionalmente rilevanti per una possibile quotazione rimane contenuto. La governance per lo più familiare, inoltre, limita l’apertura verso i capitali di terzi, spesso necessari per compiere un salto dimensionale, lasciando il canale bancario quale via privilegiata per finanziare la crescita. La scarsa diversificazione delle fonti di finanziamento, e l’eccessivo ricorso al debito, rappresenta però un freno allo sviluppo delle imprese, diminuendone la capacità di investire in progetti più rischiosi o con tempi di rientro più lunghi come quelli relativi all’innovazione o all’internazionalizzazione. 

Dall’altra parte, però, il sistema produttivo italiano può contare su alcune peculiarità su cui far leva per dare impulso alla crescita del mercato dei capitali, tra cui un settore manifatturiero di eccellenza e dall’alto valore aggiunto, realtà imprenditoriali dagli elevati livelli di innovazione, la presenza di distretti industriali che offrono opportunità di M&A per lo scale-up e, non ultimo, un risparmio privato tra i più elevati al mondo. Risparmio che rappresenta un potenziale significativo se in grado di essere indirizzato verso investimenti nell’economia reale. 

 

Il ruolo degli investitori istituzionali 

Se da una parte il DDL Capitali sembra quindi poter svolgere un ruolo importante per rafforzare l’offerta di capitale di rischio, dall’altra occorre lavorare anche sul potenziamento della domanda, anche per far fronte ai bassi volumi e alla scarsa liquidità di molti titoli che spesso limitano gli investimenti nelle PMI aumentandone il grado di rischio e incidendo negativamente sulle performance

Oltre che per dimensioni medie inferiori rispetto a quella registrate nelle principali piazze finanziarie europee, le aziende quotate italiane sono caratterizzate anche per un flottante limitato (il requisito minimo per l’EGM è il 10%) che le rende particolarmente esposte a variazioni legate a poche operazioni di compravendita in un mercato di dimensioni ridotte. La bassa quota di flottante, inoltre, incide negativamente sull’inclusione dei titoli azionari italiani negli indici internazionali, limitando così il flusso di capitali esteri in entrata.

Sul tema investitori, il disegno di legge estende agli enti previdenziali privati e privatizzati la qualifica di controparti qualificate ai fini della prestazione dei servizi di investimenti, al fine di stimolare gli investimenti anche da parte di player istituzionali e di meglio veicolare il risparmio delle famiglie italiane verso il mercato dei capitali e l’economia reale. 

Come si legge nel testo, allo scopo di conferire maggiore attenzione alla categoria degli investitori professionali, che in Italia potrebbe essere ampliata in modo da favorire il flusso di investimenti verso i mercati dei capitali, è stata, infatti, favorevolmente considerata l’inclusione degli Enti di cui al decreto legislativo 30 giugno 1994, n.509 e al decreto legislativo 10 febbraio 1996, n. 103  tra le controparti qualificate. L'obiettivo finale è quello di evitare a questi soggetti, e alle controparti con cui interagiscono, le procedure e i costi connessi alla necessità di vedersi riconosciuti come “clienti professionali su richiesta” e a cui non corrispondono effettivi benefici in termini di protezione e tutela, riconoscendo così in via definitiva le conoscenze e le esperienze di mercato che li contraddistinguono. 

Bruno Bernasconi, Centro Studi e Ricerche Itinerari Previdenziali

11/7/2023 

 
 
 

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