Dove non passano le merci, passeranno gli eserciti

La famosa affermazione dell’economista liberale francese Frédéric Bastiat sembra passata di moda. Al contrario, le merci sono i nuovi cannoni, essendo utilizzate come armi in una guerra totale in cui c’è in gioco l’equilibrio economico-politico mondiale del prossimo futuro

Giovanni Gazzoli

Nel monitorare l’evoluzione di quella partita a Risiko! che sembra essere lo scenario internazionale ai fini della delineazione delle opportunità d’investimento in mercati costantemente instabili, bisogna tenere a mente che la realtà è in perenne mutamento, e che l’unico modo per provare ad anticipare gli eventi è quello di individuare dei trend macro alla luce dei quali leggere gli eventi micro.

In questo senso, a un mese dalle elezioni europee, è possibile districarsi dal groviglio osservando ciò che succede oltre gli Urali e al di là dell’Atlantico. Infatti, i grandi conflitti che dettano le agende delle cancellerie di mezzo mondo sono al momento due, uno commerciale e l’altro, di conseguenza, valutario.

Non è un caso che la relazione annuale della Banca d’Italia si apra con questa osservazione: "Nel 2018 le spinte protezionistiche hanno prevalso sui processi di liberalizzazione del commercio mondiale, segnando un’inversione di tendenza rispetto al biennio precedente. La crescita globale è scesa al 3,6 per cento, deludendo le attese di un suo rafforzamento. […] Fattori particolari, in parte di natura temporanea, quali i disastri naturali in Giappone e lo stallo nell’industria automobilistica nell’area dell’euro, hanno interagito con un’elevata incertezza a livello globale, dovuta soprattutto alle tensioni commerciali tra Stati Uniti e Cina. Ne hanno risentito la spesa per investimenti e il commercio internazionale, in forte rallentamento nella seconda metà dell’anno; negli Stati Uniti il prodotto ha tuttavia accelerato, anche grazie agli effetti espansivi della riforma fiscale varata nel dicembre 2017". 

Il casus belli, come noto, è l’elezione di Trump, che non ha mai fatto mistero di avere come stella polare della propria azione politica il riequilibrio della bilancia commerciale americana: analizzando l’elenco dei top 30 partner commerciali degli Stati Uniti vediamo che gli USA importano più di quanto esportino per ben 687 miliardi di dollari (dati 2017). Con questo dato negativo ben chiaro davanti agli occhi, Trump ha deciso di impostare relazioni bilaterali con i singoli partner, volte ad assottigliare tale divario a costo di mostrare i muscoli.

Il primo Paese a subire questo cambio di rotta è stato la Cina, che ha un saldo positivo negli scambi commerciali con gli USA di ben 375 miliardi di dollari. Nasce da qui la lunga trattativa commerciale sino-americana, senza esclusione di colpi: il caso più evidente è quello di Huawei (il tema della sicurezza nazionale delle telecomunicazioni non aiuta), che in due anni perderà 30 miliardi di dollari, con un -40% di vendite all’estero. C’è però un rovescio della medaglia: le stesse aziende americane lamentano che questa politica possa danneggiare loro più degli stessi competitor, come ha fatto niente di meno che Apple. Tuttavia, i dati premiano Trump: +3,7% di export nel primo trimestre 2019, +3,2% del PIL (quasi il doppio delle previsioni), disoccupazione al 3,6% (la più bassa dal 1969).

Per questo, sorprenderebbe un cambio di linea; anzi, alla luce delle prossime elezioni presidenziali, è possibile un rialzo della posta in gioco. E l’obiettivo degli ultimi mesi sembra essere l’Unione Europea.

Inizialmente, lo scontro con gli alleati occidentali è stato impostato da Trump sul piano militare, ossia dei contributi economici alla NATO. Recentemente, però, il Presidente ha ampliato il terreno di scontro, prima rimangiandosi l’accordo con l’Iran e quello sul clima di Parigi (forse gli unici due successi in politica internazionale del Vecchio Continente), poi intromettendosi nel divorzio Brexit (quasi caldeggiandolo, come in occasione dell’ultimo incontro con la May), infine dichiarando guerra aperta all’intera UE, minacciando ad aprile l’introduzione di dazi per un valore di 11 miliardi di dollari. Una misura che deve far preoccupare principalmente Roma, che esporta negli USA beni per 50 miliardi all’anno, e Berlino, che ha un attivo commerciale con Washington di quasi 64 miliardi. In particolare, il 12% delle automobili esportate dalla Germania va al di là dell’Atlantico, per un valore di 27 miliardi di euro: con i dazi, scenderebbero a 14 miliardi annui. È probabile che questi numeri abbiano influenzato gli attori (in particolare quelli politici, che devono tener conto di molti fattori) protagonisti della mancata (per ora) fusione tra FCA e Renault: un competitor potenzialmente molto scomodo per Volkswagen e Ford sul mercato globale. Ricordiamo che nella partita c’era anche il Giappone (Nissan è azionista di Renault), storico alleato americano nonché in “credito” di circa 70 miliardi di dollari negli scambi commerciali oltreoceano.

Alla luce di queste considerazioni, appare comprensibile lo scambio di battute avvenuto negli scorsi giorni tra Draghi e Trump. Il Presidente della BCE, che tra pochi mesi lascerà lo scranno, ha annunciato una nuova fase espansiva, ipotizzando un ulteriore taglio dei tassi d’interesse senza chiudere le porte alla prosecuzione del Quantitative Easing; una mossa che ha fatto esultare chi ritiene che l’ex governatore di Bankitalia sia, oggi, quella figura a cui si riferiva Kissinger quando si chiedeva: “Chi chiamo se devo parlare con l’Europa?” (frase attribuita al grande diplomatico statunitense, che però ne ha smentito la paternità). Non a caso, non si è fatta attendere la risposta via Twitter di Trump, che ha lamentato la slealtà di questa decisione: infatti, in seguito alle dichiarazioni di Draghi, il dollaro si è rafforzato rispetto all’euro, andando quindi a complicare le condizioni dell’export statunitense.

Tweet Trump - Draghi

A metà maggio Trump ha deciso di rinviare di sei mesi l’imposizione di dazi sull’import di auto. È sicuramente uno dei fattori che peseranno nelle prossime decisioni politiche comunitarie, che in questi giorni si trovano a concertare le massime cariche europee: la guida della Commissione e quella della BCE. Berlino e Parigi, in sostanza, hanno in mano il futuro dell’Europa, mentre l’Italia al momento sembra spettatrice interessata.

Sono questi i driver principali che detteranno le azioni dei principali player internazionali e, di conseguenza, l’andamento dei mercati finanziari. In calendario, sono due i grandi appuntamenti: uno si svolgerà il 28-29 giugno a Osaka, in Giappone, dove si riunirà il G20, con tema proprio il commercio mondiale e la crescita economica; l’altro avverrà il 30 giugno, quando i leader dell’UE si ritroveranno per cercare un accordo sui vertici dell’Unione.

In background, molte situazioni conflittuali che condizioneranno lo svolgersi degli eventi: su tutte, la tensione tra Iran e USA nel Golfo (e, dunque, il prezzo del petrolio) e la trattativa tra Xi Jinping e Kim Jong Un per la situazione nucleare della Corea del Nord.

Giovanni Gazzoli, Centro Studi e Ricerche Itinerari Previdenziali 

26/6/2019

 
 
 

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