Il TFR conteso tra previdenza complementare, aziende ed economia reale

Il trattamento di fine rapporto rappresenta una delle principali fonti di autofinanziamento soprattutto per le piccole e medie imprese che hanno difficoltà ad accedere al credito bancario; allo stesso tempo è la maggior quota di contribuzione del lavoratore aderente alla previdenza complementare: le due cose sono davvero inconciliabili?

Niccolò De Rossi

Meglio versare il TFR alla previdenza complementare o lasciarlo in azienda? Una scelta esclude l’altra ma, in ogni caso, il trattamento di fine rapporto viene tirato per la giacchetta praticamente da sempre. O, almeno, dall’entrata in vigore del D.lgs. 252/05. La normativa in vigore ha infatti, per la prima volta nel nostro ordinamento, previsto la duplice destinazione appena menzionata. 

Il lavoratore dipendente del settore privato può infatti scegliere di: destinare il proprio TFR maturando alla previdenza complementare con modalità esplicita, scegliendo inoltre di versare anche una quota aggiuntiva di contribuzione (e beneficiando così di quella datoriale); versare le quote di TFR maturando alla previdenza complementare con modalità tacita, fattispecie che si verifica in assenza di scelta da parte del lavoratore decorsi i sei mesi dalla data di assunzione che vedrà lo stesso TFR versato alla forma previdenziale collettiva o, in assenza di questa, a FONDINPS; lasciare il trattamento di fine rapporto presso l’azienda nel caso di imprese con meno di 50 dipendenti o, nel caso di aziende 50 o più dipendenti, destinarlo al Fondo di Tesoreria. Importante ricordare che l’adesione alla previdenza complementare, sia che avvenga con modalità esplicita che tacita, dà diritto alla completa deducibilità dal proprio reddito dei versamenti effettuati fino alla soglia annua di 5.164,57 euro

Ma qual è stata la destinazione del TFR negli ultimi 5 anni? Analizzando la relazione COVIP 2018, come si vede dal seguente grafico, il trend di crescita rimane costante negli anni per tutti e tre i casi. Da segnalare e come il sistema, negli ultimi 10 anni, abbia prodotto un totale di 294.235 milioni di euro di TFR così ripartiti: previdenza complementare 62.306 milioni, Fondo di Tesoreria 68.317 e accantonamento in azienda (sotto i 50 dipendenti) 163.612 milioni di euro. Circa il 38% del TFR totale è dunque confluito alla previdenza complementare.

Destinazione TFR negli ultimi 5 anni (importi in milioni di euro)

Destinazione TFR negli ultimi 5 anni (importi in milioni di euro)

Fonte: elaborazioni Centro Studi Itinerari Previdenziali su dati COVIP

Ma perché la scelta della destinazione del TFR è tanto “chiacchierata” e desta sempre molto interesse tanto da parte degli stessi lavoratori (talvolta poco informati sulle possibili opzioni a disposizione) quanto da parte delle stesse imprese? Se per i primi la scelta dovrebbe ricadere prettamente su un’analisi complessiva di vantaggi/svantaggi dal punto di vista fiscale, di redditività e facilità nell’utilizzo del TFR per determinati eventi (acquisto prima casa, spese sanitarie, etc.) nonché per costruirsi una pensione complementare, le imprese vedono in qualche modo “sottratto” quello che da sempre è per loro circolante interno,  la maggiore fonte di autofinanziamento soprattutto in periodi di contrazione del credito bancario. Problema di cui hanno risentito particolarmente le micro e piccole imprese ancor di più durante le ultime due crisi, quando le banche (da sempre concretamente l’unico canale di finanziamento esterno) hanno "chiuso i rubinetti" del credito proprio verso le aziende di dimensioni più ridotte, spesso ritenute meno affidabili nel ripagare gli impegni assunti. 

Viene quindi meno una parte della liquidità interna (il TFR) anche se per una “finalità” importante (la previdenza complementare), mentre dall'altra parte si afferma sempre di più la necessità di trovare un canale alternativo al bancocentrismo italiano. Le due cose però potrebbero ricongiungersi, chiudendo il cerchio magico tra previdenza complementare, aziende ed economia reale (finanziamento alle PMI). Come? Le forme di previdenza complementare, ormai da qualche tempo e sempre più in modo incisivo e diversificato, hanno intrapreso la strada dell’investimento a favore del tessuto imprenditoriale nazionale, creando dunque quella finanza alternativa di cui il sistema ha bisogno e di cui molti Paesi fanno da tempo ampiamente uso con non pochi benefici.

Ma, effettivamente, quanti sono i denari che dalla previdenza complementare tornano al sistema produttivo nazionale? In attesa del VI Report sugli Investitori Istituzionali italiani: iscritti, risorse e gestori per l’anno 2018 di Itinerari Previdenziali,  dalla precedente edizione si evince come alla potenziale chiusura del cerchio manchi ancora qualcosa. Infatti, fondi pensione negoziali e preesistenti (i maggiori destinatari del TFR dei lavoratori) investono rispettivamente, al 2017, il 2,5% e il 2,3% del proprio patrimonio a favore del sistema produttivo nazionale (nelle elaborazioni vengono esclusi gli investimenti in titoli di Stato italiani). Una quota evidentemente ancora troppo contenuta per fare la differenza, ma che certamente è destinata a crescere.

Le stesse forme di previdenza complementare stanno dimostrando di avere sempre più interesse, per varie ragioni, ad aumentare il proprio investimento verso l’economia reale nazionale. Da un lato, si registra infatti l’aumento nell’utilizzo di prodotti alternativi in particolare di private equity e private debt, dall’altro PIR 2.0 ma soprattutto i “nuovi” ELTIF potrebbero dare quella spinta in più per continuare sulla strada intrapresa. Se ormai il dado è tratto, manca solo chiudere il cerchio.

Niccolò De Rossi, Centro Studi e Ricerche Itinerari Previdenziali

26/8/2019

 
 

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