Agenzie di rating e sovranità nazionale

L'allarme è scattato forte dopo l'esito del voto: la riforma Monti-Fornero va tutelata perché garantisce al sostenibilità del sistema a lungo termine. La legge ha però anche costretto a numerosi correttivi di aggiustamento e presenta tuttora delle rigidità da correggere

Alberto Brambilla

Appena noti i risultati elettorali, puntuali come il segnale orario, si sono mosse le agenzie di rating avvisando che l’Italia è “osservato speciale”.

Di più: Moody’s, che già ci ha classificati Baa2 con outlook negativo, afferma che “sarà data attenzione a eventuali cambiamenti delle riforme strutturali del mercato del lavoro e delle pensioni e che una modifica della legge Fornero, che ha migliorato la sostenibilità a lungo termine del sistema pensionistico italiano, avrebbe riflessi negativi sul rating dato che l’Italia spende già il 16% del Pil per le pensioni, una delle percentuali più alte della Ue”. Poiché anche buona parte della stampa estera (Economist, Financial Time, le Monde, el Pais) ha titolato, preoccupata, che da noi hanno vinto l’estrema destra, populista e xenofoba, forse qualche precisazione va fatta.

La prima domanda che vorremmo fare a Moody’s è: ma la riforma Monti Fornero ha funzionato? Stando ai dati aggiornati parrebbe di no. Negli oltre 25 anni di riforme (dal 1992 a oggi) non si era mai verificato che una riforma venisse ritoccata con tanta frequenza: i Governi Letta, Renzi e Gentiloni per superare le rigidità della riforma, sono dovuti intervenire con 8 salvaguardie,  di cui hanno beneficiato oltre 130.000 lavoratori andati in pensione con le regole pre-Fornero in meno di 5 anni, e con l’Ape Social (in pratica una 9° salvaguardia mascherata ma strutturale per i prossimi anni) che ne salvaguarderà altri 45 mila circa. In totale, più di 175 mila lavoratori esentati dalle rigidità Fornero (dal 2013 al 2018 una media annua di oltre 29 mila) e un costo di oltre 16 miliardi.

Inoltre, l’ultima Legge di Bilancio, per aumentare il numero dei salvaguardati, ha previsto i lavori “gravosi”, di cui manca una precisa definizione giuslavoristica (c’è per gli usuranti), riportando così il sistema previdenziale agli anni della “giungla pensionistica”, dove ogni categoria torna -  proprio come negli anni della spesa facile - ad avere regole diverse. E pensare che ci sono voluti 20 anni per arrivare a un sistema standardizzato come nei migliori Paesi Osce.

Non credo occorra altro per dimostrare i punti deboli della riforma e, quindi, la necessità di qualche aggiustamento anche perché la cosiddetta riforma Monti/Fornero si può scomporre in 2 parti. La prima recepisce i contenuti delle precedenti riforme incluso quelle dell’ultimo governo Berlusconi: mi riferisco ai due stabilizzatori automatici che garantiscono la sostenibilità del sistema pensionistico, e cioè l’aggancio dell’età di pensionamento all’aspettativa di vita e la revisione triennale dei coefficienti di trasformazione (i numerini che trasformano i contributi versati in pensione), e che nessuno vuole modificare!

La seconda è quella che, con nuove norme, ha  irrigidito il sistema: 1) l’innalzamento dell’età pensionabile che arriva addirittura a circa 6 anni (fatto mai accaduto nella lunga storia di riforme) e che ha falsato il meccanismo dell’aggancio all’aspettativa di vita portando avanti di colpo le lancette anche di 6 anni; 2) l’eliminazione della pensione di anzianità o vecchiaia anticipata con l’abolizione del requisito di 40 anni di anzianità contributiva; 3) l’indicizzazione dell'anzianità contributiva alla speranza di vita. Incremento di età e anzianità contributiva hanno di fatto ingessato il sistema e, per accedere alla pensione, servono 66 anni e 7 mesi di età (67 anni dal 2019) oppure un'anzianità contributiva di 42 anni e 10 mesi (43 anni e 2 mesi dal 2019) per i maschi e un anno in meno per le femmine, con enormi ripercussioni negative per i cosiddetti precoci, cioè quelli che hanno iniziato a lavorare prima dei 18 anni di età. Di questo passo, tra pochi anni, occorrerà avere 45 anni di anzianità contributiva, requisito che non è richiesto da nessun sistema pensionistico Ocse, come del resto i 67 anni di età.

Non ci sembra che si chieda la luna se si vuole un minimo di flessibilità in uscita, peraltro con proposte che hanno costi contenuti. Quanto all’incidenza della spesa pensionistica sul Pil pari al 16%, rileviamo che Istat inserisce nella spesa per pensioni una quota importante della spesa assistenziale: in realtà, la spesa IVS (invalidità, vecchiaia e superstiti) è sotto il 14%, quindi nella media Ue; purtroppo, a volte, riusciamo anche a farci male da soli. Non ci pare invece di aver sentito lamentele da parte delle società di rating (e neppure dalla stampa internazionale e nostrana) sull'eccesso di spesa assistenziale (100 miliardi contro i 150 netti delle pensioni) incrementati in questi ultimi 5 anni con social card, quattordicesime mensilità, reddito di inserimento (Rei) e così via, né per l’aumento del debito pubblico che, alla faccia della sbandierata austerità, in questi ultimi 5 anni è aumentato di 228 miliardi nonostante, grazie alla BCE, si siano risparmiati 49,5 miliardi di spesa per interessi sul debito.

Infine, non si capisce perché se Macron e altri premier non vogliono migranti economici va bene, mentre se lo chiedono i partiti italiani partono gli appellativi di cui sopra; stessa cosa per le modifiche alla struttura Ue che, se indicate da Macron o Merkel, sono europeiste, se invece le chiede un politico italiano, sono antieuropeiste. Forse un poco più di rispetto da parte delle agenzie di rating e della stampa estera per le scelte del popolo italiano, che non è né estremista né xenofobo, non sarebbe male.

Alberto Brambilla, Presidente Centro Studi e Ricerche Itinerari Previdenziali 

3/4/2018

L'articolo è stato pubblicato sul Corriere L'Economia del 3/4/2018
 
 
 

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