Fondi pensione italiani, una storia lunga e travagliata

Malgrado numeri in crescita, la previdenza complementare italiana mostra ampi margini di miglioramento (ancor di più nel confronto internazionale): il risultato di una storia normativa lunga e travagliata, e che necessita di nuovi interventi legislativi se si vuole davvero favorire lo sviluppo dei fondi pensione

Alberto Brambilla

La storia dei fondi pensione italiani è stata lunga e travagliata, con risultati modesti e non è ancora finita. Dopo oltre 20 anni, nel rapporto tra patrimonio dei fondi pensione e PIL siamo all'11,7%, contro una media OCSE superiore al 75% e un raffronto rispetto ai Paesi del Nord Europa impietoso: Danimarca 204% del PIL, Olanda 150% e così via. Per non parlare degli investimenti in economia reale domestica che, in media, non arrivano al 5% nonostante più del 50% dei contributi derivino dal TFR, cioè dall'economia reale del tessuto produttivo italiano. Nella classifica mondiale dei primi 300 fondi pensione per patrimonio il primo soggetto italiano è Fondazione Enpam al 196esimo posto con 28,5 miliardi, e non è neppure un fondo pensione, ma una Cassa di Previdenza di primo pilastro dei medici. 

Ma andiamo con ordine: il primo tentativo di introdurre i fondi pensione in Italia risale al 1978 con la proposta dell'allora Ministro del Lavoro Vincenzo Scotti; dal 1984 seguirono le proposte di Cristofori, Berlanda, De Michelis, Formica, Donat-Cattin, per arrivare fino al 1991 con la Amato-Rosini, tutte proposte rimasta lettera morta. Il 21 aprile 1993 viene approvato il D. Lgs. n. 124, “disciplina delle forme pensionistiche complementari, a norma dell'art. 3, comma 1, lettera v), della legge 23 ottobre 1992, n. 421”Finalmente, dopo 25 anni di discussioni e con oltre 50 anni di ritardo rispetto ai principali Paesi, anche l'Italia aveva una legge.

Nel contempo, però, mettendo insieme alcuni articoli del codice civile con altre norme fiscali, il “genio italico” aveva superato, come spesso accade, la politica e aveva costituito circa mille fondi pensione cui avevano aderito 1,65 milioni di lavoratori prevalentemente di multinazionali straniere e italiane, banche e assicurazioni, con un patrimonio di oltre 36mila miliardi di vecchie lire e flussi annui di 6mila miliardi. La gioia per il D. Lgs. n. 124 dura poco però perché Beniamino Andreatta, per la seconda volta Ministro del Bilancio e della Programmazione economica, per motivi di gettito, prevede nel decreto un’imposta preliminare del 15% su tutti i contributi versati ai fondi che verrà recuperata quando si andrà in pensione, magari dopo 40 anni. Un vero e proprio sabotaggio tanto che si blocca tutto, perfino i versamenti ai fondi esistenti. 

Bisognerà aspettare la riforma Dini, legge 335/1995, per modificare e creare le premesse per la ripartenza dei fondi pensione. Nel 1996 vengono varati i 2 decreti che regolano gli investimenti (703/96) e il funzionamento dei fondi; nascono così i primi fondi negoziali e aperti di nuova generazione che si affiancano ai fondi preesistenti e al terzo pilastro: le polizze da 2,5 milioni di lire anno con agevolazione fiscale. Anche qui l'euforia dura però poco, perché il ministro Vincenzo Visco con la legge 47/2000 cambia ancora le regole del gioco, elimina il terzo pilastro e aumenta la tassazione dei fondi sia sui rendimenti sia sulle prestazioni. Segue un altro vistoso rallentamento e si deve di nuovo aspettare il d. Lgs n. 252/2005 perché tutto torni al posto giusto.

Finita qui? Neanche per sogno! Il decreto doveva partire l'1/1/2008, dopo l’anno elettorale 2006, per consentire di preparare il fondo di garanzia per le micro e piccole imprese, organizzare la COVIP che aveva assunto il ruolo di autority, consentire ai fondi di rimodulare i loro regolamenti e la nuova operatività considerando l'utilizzo del TFR con la nuova regola del silenzio-assenso e organizzare i semestri di informazione formazione previsti dal citato decreto; tutti interventi impossibili da farsi in un anno elettorale. Ma il successivo governo Prodi, con Cesare Damiano Ministro del Lavoro, anticipa l'entrata in vigore all'1/1/2007, elimina il fondo di garanzia per le micro e PMI che conferiscono il TFR alla previdenza complementare, e divide le aziende in meno di 50 e più di 50 dipendenti, obbligando i lavoratori di queste ultime imprese che non versano il TFR ai fondi pensione a versarlo alla nuova gestione INPS, creata ad hoc.  Il Trattamento di Fine Rapporto da debito verso i dipendenti diventa miracolosamente un’entrata e così il bilancio 2007, tra tagli ai fondi pensione e nuove entrate da TFR, migliora di oltre 7 miliardi. Il tutto senza nemmeno consultare le parti sociali (ben 43, un record unico) che 2 anni prima avevano firmato un accordo che aveva poi dato vita al 252/05. 

Il governo Prodi cade dopo circa 18 mesi ma il subentrante esecutivo di centro-destra non fa nulla per riparare i danni che, a quel tempo, erano più che sistemabili. E così i flussi di nuove entrate al fondo INPS aumentano vistosamente rendendo difficile modificare le norme Prodi-Damiano che, con il “trucco” facevano bello il bilancio pubblico; il Presidente Mario Draghi, nel corso di un’audizione al servizio bilanci della Camera, aveva definito queste entrate come debito occulto.

Ma non è finita perché nel 2015 il governo Renzi, da un lato, aumenta la tassazione dei fondi pensione, dall'11% all'11,5% e poi al 20% (26% per le Casse dei liberi professionisti) e, dall'altro, con il ministro Padoan, inventa i PIR ai quali generosamente azzera le imposte sui rendimenti per tutto il tempo in cui si resta investiti: anche a vita! E per somme fino a 1,5 milioni, 10 volte il fondo pensione di un operaio o impiegato. Enorme paradosso: il fondo pensione è tutelato dall'articolo 36 della Costituzione ed è l'unico strumento nei Paesi avanzati a essere tassato annualmente con il vetusto credito d'imposta, mentre tutti gli altri investimenti sono tassati, come normale, al momento del riscatto. Tutti meno i PIR che, invece, non pagano nulla! E le parti sociali e l'opposizione? Non pervenute.

Risultato? Dopo 20 anni circa: 1) gli iscritti lo scorso anno erano 9.707.350 ma i versanti effettivi sono solo 7.016.210 (dati che non tengono conto dei PIP “vecchi”; gli iscritti ai fondi sanitari, per i quali mancano ancora una legge e la vigilanza, sono oltre 17 milioni; 2) la percentuale di adesioni ai fondi pensione delle aziende medie e medio grandi che possono privarsi del TFR perché beneficiano di finanziamenti bancari si aggira tra il 70/80%, mentre nelle micro e piccole imprese, dopo la cancellazione del fondo di garanzia, intorno all'8%; ciò significa che a circa 10 milioni di addetti è precluso il diritto alla previdenza complementare3) su circa 170mila prestazioni, dopo le modifiche peggiorative, le rendite sono solo 4mila e i riscatti per ottenere la prestazione in capitale sono enormemente aumentati; 4) dal 2007 al 2024 su più di 445 miliardi solo 105 sono confluito nei fondi pensione, mentre altri 105 sono andati al fondo INPS in spesa corrente e il resto è rimasto nelle micro e piccole imprese. 

Mi pare ci sia molto su cui riflettere.

Alberto Brambilla, Presidente Centro Studi e Ricerche Itinerari Previdenziali

6/10/2025

 

 
 
 

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