Gli effetti delle leggi sulla durata delle pensioni: errori da non ripetere

Un'attenta analisi delle decorrenze pensionistiche evidenzia un sistema previdenziale sin troppo generoso negli anni Settanta e Ottanta e fattosi poi eccessivamente rigido a seguito della riforma Monti-Fornero: dati alla mano, gli errori da non ripetere

Alberto Brambilla

Spesso i nostri cittadini si lamentano perché le età per andare in pensione sono più elevate che in passato e aumentano ogni due anni. I motivi sono essenzialmente due: viviamo di più, ed è una bella notizia, e dobbiamo mantenere il sistema in equilibrio per garantire a quelli che oggi, con i loro contributi (giovani in testa), consentono il pagamento delle pensioni affinché, quando verrà il loro turno, il sistema funzioni ancora e anche per loro ci siano le pensioni.

Senza legare l’età di pensione alla speranza di vita, i rischi sono quelli che emergono dalle durate delle pensioni erogate molti anni fa e ancor oggi in pagamento; schiere di lavoratori mandati in quiescenza a età giovani in seguito a leggi e norme che hanno permesso le baby pensioni nel pubblico impiego, i prepensionamenti, le pensioni di anzianità prima dei 50 anni e permissivi requisiti per ottenere le prestazioni di invalidità e inabilità. Ci vorranno ancora molti anni per ridurre queste anomalie che appesantiscono il bilancio del welfare.

Tuttavia, come spesso accade da noi, il “pendolo” anziché mantenersi in un centro “equilibrato”, si sposta sulle estremità. È ciò che è accaduto negli anni tra il 1965 e il 1990, con la perdita della correlazione tra contributi e prestazioni e l’adozione di requisiti di enorme favore (vedi baby pensioni), mentre nel 2011, con la Monti Fornero, si è passati a una eccessiva severità e rigidità. Insomma, in un senso o nell’altro, errori da non ripetere.

Anticipiamo qui i risultati dello studio di Itinerari Previdenziali sulla durata delle pensioni (decorrenza). Tutte le “età medie attuali” sono calcolate alla data del 31/12/2017 e non all’1/1/2018; utilizzando il 2018 significherebbe conteggiare un anno in più di decorrenza che tuttavia, per la maggioranza dei pensionati non sarebbe ancora compiuto. Al gennaio di quest’anno presso l’Inps, comprese le prestazioni ex Inpdap relative ai dipendenti pubblici, risultano in pagamento ben 758.372 pensioni da 37 anni e più relative a uomini e donne andati in pensione nel lontano 1980 o ancor prima. In dettaglio, si tratta di 682.392 prestazioni fruite da lavoratori dipendenti e autonomi (artigiani, commercianti e agricoli), di cui 546.726 a donne (80%) e 136.666 a maschi. Per i pubblici si tratta di 74.980 prestazioni, di cui 49.510 a donne (65%) e 25.470 a uomini.

Ma a che età sono andati in pensione? Nei lontani (ma non troppo) 1979/80 per i maschi del settore privato le età sono state: 53,1 anni per la pensione di anzianità, 56,3 per la vecchiaia, 50,8 per i prepensionamenti, 41,5 per le invalidità e 30,7 per le prestazioni ai superstiti; oggi le età sono rispettivamente: 61,3; 67,1; 62,4; 54,5; 76,9 (quasi 47 anni in più). Per le donne: 50,1; 55,4; 51,6; 44,3; 40,7 che oggi sono diventate 60,2; 65,4; 63,6; 52,5; 73,8. Solo come annotazione, si consideri che l’aspettativa di vita per uomini e donne a 65 anni di età è pari, rispettivamente, a 19 anni per i maschi (quindi 84 anni) e a 22 anni e 2 mesi per le donne (87 anni e 2 mesi). La durata media delle prestazioni erogate dal 1980 o prima è di circa 38 anni per il settore privato e di 41 anni per i maschi e 41,5 per le femmine per il settore pubblico. Considerando che la durata media della prestazione pensionistica si può situare a 25 anni, per avere un rapporto attuariale corretto tra periodo di lavoro (circa 33 anni al netto dei periodi figurativi) e tempo di quiescenza, a oggi abbiamo in pagamento 3.805.370 prestazioni che hanno una durata di 25 anni e più, pari al 24% circa del totale dei pensionati (16,08 milioni). Quindi, anche se mascherato da pensioni, molto più di un reddito di cittadinanza.

Le donne fanno la parte del leone con l’80% delle prestazioni in pagamento da 37 anni e più e il 67% di quelle oltre i 25 anni; si tratta prevalentemente di pensioni di invalidità, superstiti e vecchiaia (vedasi grafico). Al gennaio di quest’anno, nel settore privato, sono in essere ancora 230mila pensioni dovute ai prepensionamenti anche con 10 anni di anticipo rispetto ai requisiti tempo per tempo vigenti; se ne è fatto un uso “intensivo” fino al 2002 (i picchi si sono verificati tra il 1984 e il 1992, anno con il numero più elevato), quindi il numero di prepensionati è sceso a poche centinaia per anno fino al 2008 per poi riprendere, anche se con numeri non superiori alle 1.500 unità l’anno (tranne il 2012/2013). Ovviamente, gli oneri dei prepensionamenti sono stati scaricati sul “conto pensioni” e non sul “sostegno al reddito”, come invece si dovrebbe fare e fanno molti Paesi UE.

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Stesso discorso sulle invalidità previdenziali (per l’INPS, le pensioni indicate come ‘Invalidità’ ricomprendono le categorie ‘Assegno di invalidità’, ‘Pensione di invalidità’ e ‘Pensione di inabilità’. Le pensioni indicate come ‘Superstite’ ricomprendono le categorie ‘Superstite da Pensionato’ e ‘Superstite da Assicurato’) che andrebbero in gran parte caricate nei capitoli di spesa relativi al sostegno alla famiglia e per evitare l’esclusione sociale; ne sono in pagamento oltre 931mila (il 6% del totale pensioni), di cui con oltre 37 anni ben 338.000 e con 25 e più anni 490 mila. A queste prestazioni di invalidità previdenziale vanno aggiunte le invalidità civili (altre 964 mila più 2.096.180 indennità di accompagnamento). Come si vede da questi dati, il numero di cittadini assistiti e sussidiati dalla fiscalità generale e che potremmo definire beneficiari di un “reddito di cittadinanza ante literam”, sono veramente tanti.

Infine, nella pubblica amministrazione, sulla base delle norme degli anni Settanta-Ottanta, era possibile andare in pensione anticipatamente: nello Stato, dopo 14 anni, 6 mesi e 1 giorno di servizio utile per le donne sposate o con figli, compresi i riscatti per maternità e laurea; una laureata con 2 figli poteva lavorare anche solo per 8 anni e poi pensionarsi dopo aver versato pochi anni di contributi; oppure, per tutti i dipendenti pubblici dopo 19 anni, 6 mesi e 1 giorno e per i dipendenti degli enti locali dopo 25 anni consentendo così pensionamenti a 35/40 anni di età con 20-25 anni di contribuzione (sempre compresi i riscatti di laurea, maternità e militare). Il numero di pensioni erogate per prestazioni “AVPIS” (anzianità, vecchiaia, prepensionamenti, invalidità e superstiti) è cresciuto dalle 106 unità del 1981 ai picchi di 322 mila e 468 mila del 1991 e 1992 per tornare sopra le 433 mila unità del 1996. Dal 2001 le prestazioni decorrenti per ciascun anno si è attestato sopra le 400mila unità con picchi di 558mila nel 2006 e 520mila nel 2010.

 

Alberto Brambilla, Presidente Centro Studi e Ricerche Itinerari Previdenziali

11/6/2018

L'articolo è stato pubblicato sul Corriere della Sera, L'Economia dell'11/6/2018
 
 
 

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