I salari fuori dai luoghi sinistri

Quella dei salari bassi è una questione ormai molto dibattuta in Italia, e non senza luoghi comuni: dati alla mano, il vero - ma piuttosto trascurato - problema sembra infatti essere quello di un sistema produttivo che fatica a creare ricchezza 

Alberto Brambilla e Claudio Negro

Ormai tra politici e sindacalisti, nei talk show italiani, è diventato un luogo comune parlare di lavoro povero e di salari bassi. Pure Carlo De Benedetti nel corso della trasmissione su La7, affermava con enfasi, oltre alla necessità di una bella patrimoniale per i ricchi (toccherebbe anche a lui che vive all’estero?), che i salari dei lavoratori italiani sarebbero gravemente inferiori a quelli delle maggiori economie UE per colpa della sinistra e dei sindacati, che avrebbero rinunciato a una sana conflittualità tra lavoro e capitale.

Tralasciando le problematiche che hanno caratterizzato le aziende dell’ingegnere, cerchiamo, attraverso i dati Eurostat aggiornati al 2021, di verificare come esattamente sta la situazione. Eurostat ci dice che la paga oraria media lorda italiana nel 2021 è stata di 15,55 euro, contro i 16,9 euro dell’area Euro, i 19,66 della Germania e i 18,01 della Francia. La paga mensile lorda lo stesso anno è stata 2.520 euro in Italia, nell’area Euro 2.825, in Germania 3.349, in Francia 2.895. Quella annua 34.792 euro in Italia, nell’area Euro 38.559, in Germania 52.556, in Francia 37.956. Come si vede, il rapporto in termini di retribuzione annua tra Germania e Italia è di circa 1,5 e quello con la Francia quasi di 1 a 1. In questi valori non c’è il TFR che le tabelle Eurostat non prendono in considerazione e che, statisticamente, potrebbe essere considerato grosso modo come un’ulteriore mensilità, grazie alla quale raggiungeremmo la Francia. Mancano poi altri elementi della retribuzione come la banca delle ore, la previdenza complementare, l’assistenza sanitaria integrativa e i premi di risultato, che pure incidono sul costo del lavoro; inoltre, non sono considerati gli oneri a carico dei datori di lavoro per i contributi previdenziali, che sono in Italia di gran lunga i più elevati d’Europa (33% tra lavoratore e datore) e gli oneri per le prestazioni temporanee come malattia, maternità, disoccupazione, cassa integrazione, infortuni sul lavoro che, in taluni casi, ammontano a circa il 10%.

Quel che falsa spesso la questione è la differenza, troppo modesta, tra salari alti e bassi e, di fatti, la “media” dei salari dice poco. Proviamo allora ad analizzarli nella loro concretezza sempre con i dati forniti da Eurostat: innanzitutto, nonostante i luoghi comuni pauperisti, la differenza tra salari alti e bassi non è affatto alta, anzi è tra le più basse in Europa: i salari “bassi”, ossia inferiori ai 2/3 del salario mediano, sono soltanto il 3,7% del totale, il più basso nell’UE, mentre quelli “alti”, ossia superiori alla mediana di una volta e mezzo, sono il 19%, i più bassi dopo la Germania (18,7%). Il grosso dei salari si distribuisce abbastanza uniformemente in una fascia centrale. Molto istruttiva la comparazione con i dati europei: il delta tra la retribuzione nell’industria di processo (normalmente la più alta, esclusi i servizi finanziari) e i servizi, esclusa la Pubblica Amminiatrazione, è del 23,5% in Germania, del 13% in Francia, del 7% in Italia e del 14,5% nell’area Euro.

Questo schiacciamento del dato italiano è dovuto essenzialmente a un livello tutto sommato piuttosto alto della retribuzione nei servizi (soltanto -8,7% rispetto all'area Euro, -7,5% rispetto alla Francia, -24% rispetto alla Germania): va infatti considerato che si tratta di un segmento di occupati generalmente con bassi profili professionali, e di un comparto nel quale la produttività è stagnante come dato strutturale. Se le retribuzioni non sono disperatamente inferiori a quelle europee corrispondenti è anche grazie alla capacità negoziale del Sindacato. Ma in questo caso il sindacato conduce una battaglia difensiva in un settore povero: come si comporta invece in un settore ad alto valore aggiunto? Possiamo fare in questo caso riferimento al Cruscotto del Lavoro nella Metalmeccanica realizzato dalla FIM CISL che mostra come nel comparto metalmeccanico, ossia quello di punta all’interno del manifatturiero, che ha trainato il “miracolo economico” del dopo COVID, i salari contrattati a livello nazionale e aziendale, superino ormai i 40mila euro annui e la produttività, a fronte di una media generale che fatica a superare lo zero, sia cresciuta di 15 punti in un decennio. E tutto questo in una realtà a forte e tradizionale insediamento sindacale.

Tutto ciò detto non per assolvere il sindacato, che merita molte critiche ma non quelle che gli muove De Benedetti: anzi, soprattutto nella vulgata landiniana, gli orientamenti di buona parte del sindacato paiono coincidere. Forzando un po’, potremmo dire che De Benedetti attacca Landini da sinistra. È curiosa questa torsione culturale in un rappresentante dell’imprenditoria illuminata: insistere sul conflitto di classe per la ripartizione del “plusvalore”, mettendo in secondo piano come lo si crea, è più da marxista classico o da sindacalista massimalista. Indicare al sindacato la via maestra della lotta salariale, quando il problema centrale è la difficoltà che incontra il sistema produttivo a creare ricchezza, è incomprensibile. Ci si poteva aspettare che De Benedetti mettesse a fuoco l’esigenza di far crescere i fattori di produttività, parlasse nel PNRR e di politica industriale. Si vede che invece ha avuto la meglio una sua certa propensione a un modello predatorio del fare impresa, già manifestato in passato.

Alberto Brambilla, Presidente Centro Studi e Ricerche Itinerari Previdenziali

Claudio Negro, Centro Studi e Ricerche Itinerari Previdenziali
e Fondazione Anna Kuliscioff 

17/4/2023

L'articolo è stato pubblicato su Libero Quotidiano del 12/4/2023
 
 
 

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