La leggenda metropolitana del cuneo fiscale

Proporre la riduzione del costo del lavoro attraverso quella dell'IRPEF o dei contributi è fin troppo semplicistico: come si può pensare infatti, da una parte, di aumentare ulteriormente il debito pubblico o, dall'altra, di chiedere ai lavoratori di rinunciare a diritti e istituti ormai consolidati? 

Alberto Brambilla

Abbiamo un’organizzazione del lavoro medioevale, siamo l’unico Paese in cui negli ultimi 40 anni i salari sono diminuiti (-1,9%), nemmeno la Grecia o Cipro hanno fatto peggio, la produttività degli ultimi 10 anni è stata 9 volte più bassa della media UE, siamo ultimi con la Grecia per tassi di occupazione e, a sentire la politica e le parti sociali, sembra che il problema principale sia il cuneo fiscale e contributivo.

Cos’è il cuneo fiscale e contributivo? In pratica, è la differenza tra lo stipendio netto in busta paga e il costo sostenuto dall’azienda, che comprende però imposte e contributi pagati da lavoratori e imprese, così come anche i cosiddetti “istituti contrattuali” che gravano sul costo del lavoro. Analizziamo il cuneo fiscale e contributivo prendendo ad esempio un lavoratore con un reddito fino a 25mila euro, rappresentativo di oltre il 75% dei lavoratori italiani. Fatto 100 quello che prende in busta, il nostro lavoratore paga il 9,2% circa in contributi pensionistici e, sul restante 90,8%, circa il 15% di IRPEF; con deduzioni e detrazioni medie, gli restano 77,18 euro. Qui però occorre precisare che, secondo i dati del MEF, i redditi fino a 15mila euro  - 8,2 milioni di lavoratori dipendenti, pari al 39% circa del totale - per effetto del bonus da 80 euro non versano imposte; quelli da 15 a 20mila euro (altri 3 milioni) versano un’imposta media di 1.260 euro, insufficiente persino per pagarsi la sola spesa sanitaria pro capite (1.930 euro); solo gli altri 3 milioni di lavoratori, con redditi tra 20 e 25mila euro, pagano un'imposta, che è però ancora insufficiente a pagarsi la spesa sanitaria per sé e per le persone a carico.

Quindi, di cosa stiamo parlando? Il 100 in busta pagato del lavoratore al datore di lavoro costa circa 130 per via dei contributi previdenziali versati all’INPS (23,8), per le prestazioni temporanee all’INPS (malattia, maternità, disoccupazione, e così via) e all’Inail per l’assicurazione contro gli infortuni. La differenza tra netto e costo azienda è pari a 1,68 volte (130 su 77,18).

Prima domanda, è riducibile questo cuneo fiscale e contributivo? Risposta è no! Infatti, se si vogliono ridurre i contributi previdenziali, a parte la perdita di gettito per l’erario che creerà - in un sistema a ripartizione come il nostro - più di qualche problema di sostenibilità, bisogna dire al lavoratore che la sua futura pensione non sarà più pari al 72% dell’ultimo reddito ma minore, in funzione della riduzione contributiva. Oppure, se come pare, molte parti sociali sindacali e datoriali vogliono mantenere il valore della pensione a fronte di una riduzione dei contributi, dobbiamo essere sinceri e ammettere che aumenteremo il debito pubblico di molti miliardi l’anno, alla faccia delle pensioni dei giovani! Ad esempio, una riduzione di tre punti per tutti costerebbe circa 18 miliardi l’anno! Fattibile? No!

Seconda domanda: possiamo ridurre le grandi conquiste sociali che garantiscono un salario se uno si ammala o diviene inabile, infortunato o invalido o disoccupato? Se si è in maternità o paternità? No, quindi anche i contributi per le prestazioni temporanee e l’Inail non si possono ridurre, salvo pesanti aggravi per i conti pubblici. Il difetto di questo mantra del cuneo fiscale e contributivo sta tutto qui: non si può ridurre la pensione, così come non si possono ridurre le prestazioni sociali, a meno di fare ancora più debito pubblico di quanto ne sia stato fatto in questi ultimi 20 anni.

Ma poiché la differenza tra il netto in busta paga e il costo azienda arriva a 2,2 volte, vediamo dove vanno questi altri soldi. Prendiamo ad esempio il contratto commercio e servizi: su ogni ora lavorata occorre caricare i costi di alcuni “istituti” (per usare il gergo sindacale) di cui beneficiano i lavoratori, vale a dire la tredicesima e quattordicesima mensilità, il Premio di Risultato previsto nei contratti territoriali o aziendali (circa mezza mensilità), il TFR (in pratica una mensilità), le ferie e festività (tra 21 e 27 giorni lavorativi quindi più di un mese); a questi vanno poi aggiunti i costi per l’adesione al fondo di assistenza sanitaria integrativa e quello per il fondo pensione. In totale, il nostro 1,67 volte passa a oltre 2,2 volte. È persino evidente che su questo terzo fronte è impossibile ridurre il costo del lavoro, ovvero la distanza tra quanto il lavoratore riceve in busta paga e quanto costa all’azienda, perché al netto dell’IRPEF tutto il resto va già a beneficio del lavoratore, in modo diretto (i soldi della tredicesima e quattordicesima mensilità, il TFR, il Premio di Risultato) o indiretto (fondo pensione, assistenza sanitaria, contributi all’INPS, assicurazioni sociali e così via). Riduciamo le ferie? Eliminiamo la quattordicesima? Ovvio che no! E, se ci pensiamo bene, anche l’IRPEF va a beneficio del lavoratore e della sua famiglia, se non altro per pagare sanità, scuola, e così via. 

Sarebbe una proposta educativa e utile mandare a tutti i contribuenti quanto hanno versato nell’anno di IRPEF e quanto hanno ricevuto in servizi: ci si accorgerebbe che il mantra di abbassare le tasse vale forse per meno del 20% della popolazione, quella che le paga davvero e per tutti ma che il governo esclude da qualsiasi agevolazione, com'è di nuovo accaduto con i 200 euro in busta paga a tutti i redditi ma solo fino a 35mila euro lordi. E pensare che quelli che hanno un reddito sopra tale cifra sono solo il 13% dell’intera popolazione ma pagano quasi il 60% di tutte le imposte e i contributi: cornuti e mazziati! Più paghi più lo Stato ti ignora: insomma, una dittatura della maggioranza degli scrocconi. Ma se le riducessimo a questo 20% di lavoratori, cosa che sarebbe giusta, chi pagherebbe poi le tasse?

Il problema, anche a seguito degli accordi sulla politica dei redditi di Ciampi del 1993 e Berlusconi del luglio 2003, sta tutto nella mancata rivalutazione per via contrattuale di stipendi e salari. Sindacati e datori hanno aumentato forse all’eccesso gli istituti contrattuali ma non si sono mai occupati di svecchiare l’organizzazione del lavoro e incrementare la produttività, che sono le uniche possibilità per migliorare i salari e ridurre il costo del lavoro. Anche lo Stato non ha fatto nulla per migliorare i redditi. Si sarebbero potuti introdurre il "contrasto di interessi", visti gli enormi livelli di evasione ed elusione fiscale e contributiva (siamo primi in classifica in Europa) e il “plafond di deducibilità unico per le famiglie”, al posto dell’Assegno Unico e Universale Familiare). O, ancora, agevolare l’imprenditorialità giovanile nei settori artigianato, commercio, turismo, servizi, nuove start-up, e l’apertura di nuove partite IVA; si sarebbe potuto migliorare e semplificare il welfare aziendale, introdurre il buono trasporti esente da tassazione, aumentare l’importo fiscalmente esente del buono pasto e così via. Solo questi ultimi tre provvedimenti consentirebbero incrementi di oltre il 10% per salari fino a 25mila euro. E invece si continua a dibattere sul nulla o quasi. 

Proporre la riduzione del costo del lavoro semplicisticamente con la riduzione dell’IRPEF o dei contributi è velleitario e occorre sempre domandarsi poi: chi paga?!

Alberto Brambilla, Presidente Centro Studi e Ricerche Itinerari Previdenziali 

7/6/2022

L'articolo è stato pubblicato sul Corriere della Sera, L'Economia del 23/5/2022
 
 
 

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