La riforma fiscale e le irricevibili richieste di politica e sindacati

L'Italia necessita sì di una seria revisione del proprio fisco ma la riforma di cui si sta discutendo non sembra tenere conto della reale situazione del Paese, che vede il carico fiscale gravare sulle spalle di pochi contribuenti, una forte redistribuzione già in corso e un debito così elevato da non lasciare margine a nuovi bonus e sussidi

Alberto Brambilla

Com’era prevedibile la riforma fiscale, al pari di quella sulle pensioni, è diventata il nuovo scenario per confermare due tendenze assai pericolose per il futuro del nostro Paese e soprattutto per la coesione sociale: l’affermazione che “noi, politici o sindacati, ci siamo” e il secondo assunto “siamo noi i paladini che difendono i vostri interessi, ergo votateci”. Insomma, una spasmodica ricerca del consenso elettorale o di tessera e l’affermazione dell’esistenza in vita. Non importa se per ottenere questi risultati si facciano affermazioni non veritiere e proposte non sostenibili ma solo slogan, formule logore e suggestioni molto più attente alla sonorità dei messaggi e agli applausi che ricevono piuttosto che ai loro contenuti concreti, che però hanno l’effetto di scatenare tra la popolazione astio, rabbia e stati d’animo negativi nei confronti di altri concittadini, con grave rischio per la pace sociale. 

Per quanto riguarda la pseudo-riforma fiscale proposta dai partiti, la protesta, emersa nel corso della manifestazione sindacale a Roma, è incentrata sul fatto che i redditi sotto i 15.000 euro annui lordi non abbiano ottenuto benefici fiscali. Landini ha “urlato” tutto il suo dissenso aizzando la rabbia popolare verso i “ricchi” a difesa dei “poveri”. Eppure, non dovrebbe sfuggire agli uffici studi dei sindacati che in questa fascia di contribuenti, cui si applica l’aliquota del 23%, ci sono circa 18 milioni di dichiaranti che -  grazie a esenzioni, detrazioni e bonus (di cui questa cittadini sono i maggiori beneficiari) - quelli che pagano almeno un euro di IRPEF sono solo 4.782.000, mentre l’IRPEF media versata va dai 31 euro ai 454 (37 euro al mese). In totale, questi dichiaranti - cui corrispondono circa 26 milioni di cittadini (ogni dichiarante corrisponde in media a 1,44 abitanti che, di norma, sono a carico) - versano solo il 2,31% di tutta l’IRPEF. Di questi, i lavoratori dipendenti con reddito fino a 15.000 euro sono 8.250.000 e versano, nella quasi totalità, un'imposta pari a zero o negativa anche grazie a detrazioni e bonus: quindi, ridurre l’aliquota del 23% a questa fascia avrebbe un beneficio pari a zero. I pensionati sono 6.135.000 ma soltanto 3.200.000 pagano un’imposta mediamente di 387 euro annui (32,25 euro al mese). Landini si è scagliato con forza contro le annunciate riduzioni d’imposta per i redditi tra i 28 e i 50mila euro lordi l’anno, che beneficerebbero di una riduzione dal 38% al 35%, e soprattutto contro quelli (poco più di 1,5 milioni) tra i 40.000 e 50.000, che non hanno sgravi e bonus e che pagano molte tasse ma che, per i sindacati, sono i maggiori beneficiari della revisione fiscale. Per quanto riguarda i 16 milioni di pensionati, circa 8 milioni sono totalmente o parzialmente assistiti e quindi, al pari dei 3,3 milioni di beneficiari del reddito di cittadinanza, non pagano alcuna imposta: sono a carico di altri cittadini evidentemente non tutelati né dai sindacati né dalla politica di destra e sinistra. 

CGIL, CISL, UIL, in coro con i partiti politici, indicano tra i dimenticati della riforma le piccole partite IVA, omettendo però di ricordare che, al di sotto dei 15.000 di reddito, pagavano nel 2019 almeno 1 euro di IRPEF soltanto 398.000 contribuenti su 946.545, e la gran parte usufruisce ormai della flat tax al 15% al posto dell’aliquota del 23%: un vero motore per aumentare il sommerso e che nessun Paese sviluppato adotta. E che invece è diventato lo slogan del centrodestra che, oltre a voler aumentare la flat tax fino a 100mila euro, proporrebbe pure di rottamare le cartelle esattoriali: insomma, un altro bel condono per conquistarsi i voti di quelli che beneficiano di tutti i servizi dello Stato senza pagare.

Ma perché mai un lavoratore dipendente (sono oltre 16,5 milioni) su un reddito oltre i 15mila euro dovrebbe pagare dal 27% in su, con aliquote progressive (la ormai nota tripla progressività) e, oltre i 50mila euro, addirittura il 43% di IRPEF ordinaria oltre a un 3% di addizionali, mentre poco meno di un milione di autonomi -  anche dovesse guadagnare 100mila euro - dovrebbe pagare solo 15%? Citofonare a Tajani e Salvini per farselo spiegare. E perché i lavoratori dipendenti dovrebbero votare questi partiti “classisti” considerando pure che la maggiore quota di evasione fiscale sta proprio nelle attività autonome? Sfugge anche ai sindacati?

Quanto poi alla parola magica “redistribuzione", oggetto del desiderio della sinistra, forse bisognerebbe ricordare che per dare al 60% dei cittadini che pagano poche o nulle imposte i servizi di sanità pubblica, assistenza e scuola (poi c’è tutto il resto), la redistribuzione di risorse è enorme: la spesa sanitaria nel 2019 è costata 115,45 miliardi, pari a 1.930 euro per ogni cittadino; l’assistenza sociale (invalidità civili indennità di accompagnamento, assegni sociali, maggiorazioni e quattordicesima mensilità sulle pensioni, reddito di cittadinanza e tutte le forme assistenziali per famiglie, dipendenze a anziani), è costata 114,27 miliardi, 1.910 euro pro capite, mentre l’istruzione 62 miliardi, pari a 1.036,5 euro pro capite. Per consentire ai nostri concittadini che non pagano IRPEF, o ne pagano molto poca, di beneficiare di questi tre servizi di cui probabilmente non sono consci, occorrono 172 miliardi che sono a carico di quel 21% che però paga il 72% di tutte le imposte, e tra questi il 13% se ne sobbarca quasi il 60%. Essendo il Paese in cima alle classifiche per evasione fiscale, partiti e sindacati, ma anche qualche altro influencer nazionale, dovrebbero discutere di come rendere equo il fisco, magari concedendo il “contrasto di interessi” a 25,5 milioni di famiglie che per i servizi essenziali (elettricisti, idraulici, carrozzieri, meccanici, tappezzieri, e così via), vale a dire tutte le forniture dirette e non intermediate, non possono dedurre nulla a differenza dei lavoratori autonomi.

Si potrebbe iniziare una discussione seria su quale fisco vogliamo, al netto di slogan e luoghi comuni: per esempio discutere se la curva delle aliquote possa essere ridisegnata sul modello tedesco che elimina i gradini tra un’aliquota e l’altra. Per ridurre il cuneo fiscale si potrebbero migliorare e semplificare il welfare aziendale, riequilibrare il peso delle imposte tra dirette e indirette, e invece no! I politici continuano ad affermare che “dobbiamo dare agli italiani quello che si meritano” convincendoli così che meritano di avere più soldi (la paghetta di Stato del reddito di cittadinanza o dell’AUUF), pagare meno imposte e avere servizi gratis. E poiché ciò non può essere realizzato, aumentano la rabbia, gli estremismi e lo scontro sociale evidenziati dalla infedeltà di voto.

A tutti i politici che propongono “a debito” meno tasse e più servizi gratis, gli elettori dovrebbero chiedere: chi paga? Si accorgerebbero che stanno lasciando ai figli e nipoti un debito insostenibile e non etico. 

Alberto Brambilla, Presidente Centro Studi e Ricerche Itinerari Previdenziali 

27/12/2021

L'articolo è stato pubblicato su Il Messaggero del 13/12/2021
 
 

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