Le promesse impossibili nel Paese dei mille sussidi

Il 54% della spesa pubblica, pari a circa 510 miliardi di euro, serve solo per coprire pensioni, assistenza, sanità e sostegno al reddito: con un debito pesante come quello italiano sulle spalle, i partiti politici possono davvero permettersi di promettere nuovi bonus e sussidi a profusione?

Alberto Brambilla

Che da troppo tempo ci sia un forte scollamento tra la classe politica e la “vita reale” è certificato dai dati economici e sociali: nelle classifiche europee il nostro Paese primeggia per debito pubblico ed evasione fiscale, mentre è agli ultimi posti per redditi da lavoro e tasso di occupazione. L'Italia è ai primissimi posti per spesa sociale ma, al contempo, detiene il record per l’aumento della povertà assoluta e relativa. E, poiché gran parte della spesa e del debito se ne va per sussidiare una bella fetta di popolazione, non c’è da stupirsi se gli effetti finali di questa politica del consenso sono una forte mancanza di lavoratori, una scarsa organizzazione del lavoro, un'evasione di massa e una pauperizzazione.

Vediamo in sintesi alcune statistiche: a) nel 2020 la spesa per pensioni (234 miliardi), assistenza sociale (144,76 miliardi), sanitaria (123,5 miliardi) e quelle per il welfare degli enti locali e il sostegno al reddito è ammontata a 510 miliardi, pari al 54% dell’intera spesa pubblica. Basterebbe questo dato a far smettere i politici dal promettere di tutto e di più. Ma c’è dell’altro, visto che per pensioni e assistenza sociale gli enti pubblici hanno erogato circa 90 miliardi di prestazioni esenti da tassazione; soldi “netti” che, con alta probabilità, andranno ad alimentare il sommerso come i beneficiari della flat tax il cui ragionamento, nella stragrande maggioranza dei casi, è semplice: se dai redditi non posso dedurre alcuna spesa oltre al coefficiente forfettario relativo al codice Ateco, perché mai dovrei comprare in chiaro e pagare l’IVA? Ove possibile comprerò merci e servizi, ottenendo anche sconti dal fornitore per il fatto di non richiedere fatture, risparmiando così anche Iva e costi accessori.

Lo stesso discorso vale per i beneficiari delle prestazioni e pensioni assistenziali, compreso il reddito di cittadinanza: perché ridurre il potere d’acquisto di queste prestazioni pagando in chiaro e, quindi, corrispondendo anche l’IVA? Si spiega così il risultato che emerge dall’analisi delle dichiarazioni dei redditi 2019 elaborati e diffusi dal nostro Centro Studi e Ricerche e che vede il 57% degli italiani, vale a dire circa 14.535.000 famiglie su un totale censito da Istat di 25,7 milioni, vivere in media con meno di 10mila euro lordi l’anno. Un dato difficile da credersi, come difficile è credere alle file alla “Caritas” e similari (chiedere i costi per un'alimentazione naturale a un nutrizionista per conferma). È mai possibile che in un Paese del G7, con la maggiore percentuale di case in proprietà e di auto in circolazione, tenuto conto dei contratti telefonici, di smartphone e degli oltre 120 miliardi investiti nel gioco d’azzardo, i percettori di redditi sopra i 29mila euro - cioè quelli che prendono sole le briciole in termini di aiuti e sussidi di Stato (l’AUUF ne è la prova provata) - siano meno di 5 milioni, pari al 21,18% dei dichiaranti, che però versano il 71,64% di tutta l’IRPEF, mentre il 78,82% di contribuenti con redditi fino a 29mila euro versano solo il 28,36%. È evidente che siamo in presenza di un'evasione di massa favorita e incentivata proprio dallo Stato, che meno dichiari e più sussidia (si veda per comprendere l’attenzione degli italiani verso bonus e sussidi, la corsa al demenziale provvedimento del “bonus terme”). 

b) Qualche mese fa su queste colonne dicevamo che il PNRR non era (e non è) ancora partito e già mancano lavoratori nell’industria, commercio, servizi e agricoltura: è possibile che su circa 37 milioni di persone in età da lavoro quelli che lavorano regolarmente siano meno di 23 milioni? E gli altri che fanno? E quando arriveranno a 67 anni dovremo davvero pagare, come abbiamo fatto finora per quasi un milione di persone, a piè di lista l’assegno sociale? Un danno, oltre alla beffa, a carico delle povere giovani generazioni, di cui tutti si preoccupano ma al contempo caricano di debiti.

Se si osserva il numero di assistiti con cassa integrazione, NASpI, reddito di cittadinanza e sussidi vari si sfonda quota 5 milioni di persone che, in buona maggioranza, sono in età da lavoro. E parte di quelli che vengono definiti non avviabili alla “fatica” lo sarebbero, se non avessero problemi di gioco, dipendenze, disfunzioni alimentari, tutte curabili se funzionassero i servizi sociali oltre ai Centri per l’Impiego. E che dire dei NEET, 2,1 milioni di giovani che non fanno nulla ma qualcuno li mantiene, magari i nonni, tra cui gli 8 milioni di pensionati assistiti che prendono i soldi esentasse. E cosa aggiungere poi sugli oltre 3 milioni di lavoratori in nero! Altro che lotta all’evasione fiscale di cui si riempiono la bocca un po' tutti: il fatto è che siamo uno Stato colabrodo. 

c) E qui veniamo al terzo punto, il debito pubblico. Da anni i politici, alla spasmodica ricerca di panem et circenses, per incrementare i consensi, trovano sempre una scusa per aumentare la spesa pubblica: oggi vanno di moda l’assegno unico per i figli e il reddito di cittadinanza ma potrebbero trovare un “bonus” anche i separati e divorziati (Salvini), i giovani diciottenni (Letta), i pensionati già assistiti o quelli che di contributi ne hanno pagati poco o nulla e i lavoratori con redditi fino a 20mila euro l’anno (il 43,63% dei contribuenti, che versano solo il 2,31% dell’IRPEF) godendo gratis di tutti i servizi dello Stato ed enti locali (sindacati), che potrebbero godere della riduzione del cuneo fiscale, senza dire se a beneficio del 70% che paga poche tasse o del 30% che le paga (Meloni). E così, secondo Eurostat, siamo il Paese che ha il maggiore rapporto debito pubblico/PIL (155%), battuti solo dalla piccola Grecia che però ha un PIL pari ai 2/3 di quello della Lombardia. Da noi le promesse dei politici hanno aumentato il debito dal 99,8% del 2008 ai 2.409,9 miliardi (134,7% del PIL) del 2019, per arrivare poi ai 2.569,3 miliardi di euro del 2020 (157,5% del PIL) che, a settembre 2021, hanno toccato il record di 2.706 miliardi: 137 miliardi in soli 9 mesi che si sommano ai 159,4 miliardi accumulati nel 2020. Gli altri Paesi che, oltretutto hanno ridotto il debito in misura maggiore di quanto fatto dall’Italia, si trovano a livelli più bassi: Portogallo (135,4%), Spagna (122,8%), Francia (114,6%) , Belgio (113,7%) e Germania (2.200 miliardi di debito, il 75% del PIL). 

Vogliamo continuare così? Bene ricordare che il pareggio di bilancio previsto dall’articolo 81 della Costituzione “Lo Stato assicura l'equilibrio tra le entrate e le spese del proprio bilancio, tenendo conto delle fasi avverse e delle fasi favorevoli del ciclo economico...” doveva verificarsi nel 2011. Di questo passo non lo raggiungeremo neppure nel 2025 e COVID è quello che ha meno incidenza.

Alberto Brambilla, Presidente Centro Studi e Ricerche Itinerari Previdenziali 

20/12/2021

L'articolo è stato pubblicato sul Corriere della Sera, L'Economia del 13/12/2021
 
 

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