Pensioni, una questione di genere?

Quando si parla di pensioni si incorre spesso in luoghi comuni: tra i più duri a morire, il cosiddetto gender gap. Se, da un lato, è vero che le donne percepiscono un reddito pensionistico inferiore, dall'altro, una migliore e corretta comunicazione delle ragioni di questo divario gioverebbe in termini sia di disuguaglianza percepita sia di fiducia nel sistema

Michaela Camilleri

Quando si parla di pensioni si incorre spesso in luoghi comuni. Tra questi, il cosiddetto gender gap pensionistico è senza dubbio uno dei più diffusi. I dati elaborati nel Decimo Rapporto sul Bilancio del Sistema Previdenziale Italiano, a cura del Centro Studi e Ricerche Itinerari Previdenziali, chiariscono uno dei falsi miti per eccellenza. Partiamo da una certezza per sgomberare subito il campo da fraintendimenti: è indubbiamente vero che le donne rappresentano più della metà dei pensionati (circa il 52%) e percepiscono solo il 44% dell’importo lordo complessivamente erogato per pensioni (137.483 milioni di euro contro i 175.520 pagati agli uomini nel 2021). Sul totale delle prestazioni corrisposte – previdenziali, assistenziali e indennitarie – nel 2021 le donne hanno percepito un reddito pensionistico annuo medio pari a 16.501 euro contro i 22.598 euro degli uomini. Un divario che trova dunque reale riscontro nei numeri ma del quale, spesso, non vengono analizzate a fondo le motivazioni, dando spazio a una narrazione imprecisa.

Innanzitutto, le pensionate registrano un maggior numero di prestazioni pro capite, in media 1,50 a testa contro le 1,32 degli uomini. Nel dettaglio, le donne rappresentano il 58,5% dei titolari di 2 pensioni, il 68,6% dei titolari di 3 pensioni e il 70,2% dei percettori di 4 e più trattamenti. Entrando più nel dettaglio della tipologia di prestazioni percepite, si scopre che le donne prevalgono nel caso di pensioni ai superstiti (circa l’87%), pensioni di vecchiaia (62%) e trattamenti assistenziali (59%). Si tratta di prestazioni di importo mediamente più basso rispetto ad altre categorie come, ad esempio, le pensioni di anzianità/anticipate (per circa il 67% del totale corrisposte a uomini) a causa di anzianità contributive meno consistenti. Basti pensare che le beneficiarie di pensioni di reversibilità di lavoratori autonomi o di pensionati di vecchiaia i cui trattamenti erano integrati al minimo percepiranno al massimo il 60% della pensione diretta o, entro i limiti di reddito previsti, una pensione reversibile integrata al minimo.

Figura 1 – Pensioni vigenti all'1 gennaio 2022 per genere

Figura 1 – Pensioni vigenti all'1 gennaio 2022 per genere

Fonte: Decimo Rapporto sul Bilancio del Sistema Previdenziale italiano, Itinerari Previdenzali

Proseguendo nella scomposizione, le donne prevalgono rispetto agli uomini percettori di assegni prodotti da “contribuzione volontaria”, solitamente modeste a causa di bassi livelli contributivi, tutte ragioni per le quali spesso beneficiano di integrazioni al minimo (83,2%), maggiorazioni sociali (67,9%), importi aggiuntivi, quattordicesime mensilità e altre misure di matrice assistenziale. Affermare dunque, con un’elementare operazione di divisione, che ricevono prestazioni inferiori agli uomini è sì corretto dal punto di vista formale ma non da quello sostanziale. Sarebbe certamente più utile una comparazione tra prestazioni di identica tipologia: anzianità su anzianità, vecchiaia su vecchiaia, e così via.

In secondo luogo, va considerato che il sistema previdenziale italiano non è di per sé penalizzante nei confronti delle donne ma riflette semmai l’andamento del mercato del lavoro il quale, malgrado segni di lento e progressivo miglioramento, si caratterizza tuttora per tassi di occupazione e livelli retributivi poco favorevoli alle lavoratrici e, dunque, alle pensionate. Stando agli ultimi dati Eurostat, l’Italia si colloca all’ultimo posto della classifica del 27 Paesi dell’Unione Europea con un tasso di occupazione femminile (55%), superata persino dalla Grecia (55,9%), e con un differenziale rispetto alla media di oltre 14 punti percentuali. Se si confrontano i tassi di occupazione per genere, ancora una volta, il nostro Paese è fanalino di coda con uno scarto di quasi 20 punti percentuali (55% delle donne contro il 74,7% degli uomini), circa il doppio del differenziale medio europeo.

Figura 2 – Tassi di occupazione 20-64 anni per genere, 2022

Figura 2 – Tassi di occupazione 20-64 anni per genere, 2022

Fonte: Elaborazioni Centro Studi e Ricerche Itinerari Previdenziali su dati Eurostat

Scomponendo il dato a livello regionale, la situazione risulta ancora più accentuata nel Mezzogiorno, con un tasso di occupazione femminile che non raggiunge il livello del 50%: le regioni del Sud Italia occupano gli ultimi posti della classifica, collocandosi ben al di sotto della media nazionale con tassi che oscillano dal massimo del 47,5% dell’Abruzzo al minimo del 30,5% della Sicilia.

Premesso che ormai da diversi anni l’età pensionabile è stata uniformata per entrambi i sessi, l’ordinamento italiano riserva in realtà alla platea femminile alcune piccole agevolazioni (dall’anzianità contributiva ridotta di un anno per la pensione anticipata passando agli “sconti” per le lavoratrici madri che accedono alla pensione di vecchiaia con il sistema contributivo), come compensazione di una maggiore difficoltà nel conciliare lavoro e vita familiare che, anche per ragioni storiche e culturali, si traduce in nastri contributivi più brevi e frammentati. 

Si potrebbe senza dubbio fare meglio ma, ancora una volta allora il vero tema è veicolare adeguatamente la questione affinché si comprenda che migliorare la condizione lavorativa femminile è la vera chiave di volta per superare le disparità tra i generi anche in ottica pensionistica: servono innanzitutto misure e servizi, come quelli all’infanzia, che riducano la discontinuità delle carriere.

Michaela Camilleri, Centro Studi e Ricerche Itinerari Previdenziali

5/6/2023

 
 

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