Per sviluppare i fondi pensione lo Stato ci deve credere

Il recente interesse del governo nei confronti della previdenza complementare è senza dubbio una buona notizia ma, per raggiungere l'obiettivo rilancio, occorreranno sia budget sia il coraggio di intervenire sul delicato tema del TFR, ripristinando il fondo di garanzia per le PMI ed eliminando la distinzione tra aziende con più o meno di 50 dipendenti che oggi ingessa il sistema

Alberto Brambilla

I detti popolari che non si può avere la botte piena e al contempo la moglie ubriaca o che non si possono fare le nozze con i fichi secchi si attagliano bene alle intenzioni del governo di incentivare sì lo sviluppo della previdenza complementare (è una buona notizia), ma senza ulteriori oneri per lo Stato. Eppure, dopo modifiche peggiorative dei fondi pensione realizzate con la legge finanziaria per il 2007 dal governo Prodi (Ministro del Lavoro Cesare Damiano) e con l’aumento della tassazione di Renzi nel 2015, ce ne sarebbe davvero bisogno per aumentare le adesioni e lo sviluppo della cultura previdenziale. 

Per memoria è utile ricordare le modifiche al decreto legislativo n. 252/2005 che sarebbe dovuto entrare in vigore il primo gennaio 2007 nella sua interezza, ma poi reso monco e ingessato al solo scopo di "fare cassa" sui fondi pensione. Vediamo per punti: 1)senza alcuna ragione viene abolito il "fondo di garanzia per le micro e PMI" inserito nella legge dopo un accordo con tutte le parti sociali, Confindustria in testa (ben 43, un record) e che avrebbe consentito di finanziare al tasso Euribor più 1 punto percentuale tutti i deflussi di TFR dalle imprese ai fondi pensione. In pratica, poiché il TFR, che è retribuzione differita, ma anche e soprattutto "circolante interno all'impresa", è utilizzato per finanziare l'acquisto di materiali, il magazzino, le imposte, etc., la 252/05 prevedeva che ogni anno il datore delle PMI andasse in banca per ottenere un finanziamento di pari importo al TFR defluito ai fondi pensione, di durata 10 anni con 2 di preammortamento. Questa previsione era lungimirante perché già allora le grandi banche, che avevano incorporato la gran parte delle banche territoriali, facevano poco credito a queste PMI; situazione che si è ulteriormente aggravata dopo la crisi Leman Brothers del 2008 con il credit crunch e ancora più grave oggi a seguito delle ultime aggregazioni. Con questa garanzia si aprirebbe un nuovo grande mercato del credito a beneficio dell’intero sistema. Risultato: oggi solo meno del 10% degli oltre 7,2 milioni di lavoratori delle PMI è iscritto ai fondi pensione, contro il 70% e più delle medie e grandi aziende che possono agevolmente fare a meno del TFR; un’ingiustizia sociale. 

2) Modificando la 252/05 il testo Damiano ha suddiviso arbitrariamente le aziende in meno di 50 dipendenti e più di 50 dipendenti: per queste ultime, in caso il lavoratore scegliesse di lasciare il TFR in azienda, questo deve essere versato al Fondo di Tesoreria INPS che raramente concede anticipazioni, con danno per i lavoratori, e in caso di liquidazione per dimissioni del lavoratore, è il datore di lavoro che eroga, compensando l'uscita con i contributi da versare. In 10 anni sono stati sottratti all'economia reale, di cui il governo fa professione di fede prevedendo il Fondo Strategico Italiano (700 milioni), quasi 100 miliardi che l'INPS usa per spesa corrente; e il grave è che per tutti noi il TFR è una passività, un debito nei confronti dei lavoratori, mentre per la legge Prodi/Damiano sono entrate (attivi) e quindi qualsiasi modifica richiede una montagna di soldi visto che il flusso annuo dalle aziende al Fondo INPS vale 6,2 miliardi. 

3) Il fondo INPS ingessa il sistema. Infatti, se la 252/05 prevedeva più semestri di silenzio-assenso per aumentare la cultura finanziaria e previdenziale degli italiani e sviluppare i fondi pensione, anche per lo scorso anno 2024 è stato impossibile prevedere il semestre di silenzio-assenso (l'ultimo è del lontano 2007 e per giunta di soli 3 mesi scarsi) perché - questo il ragionamento della Ragioneria Generale dello Stato) - se anche solo il 10% dei lavoratori cambiasse idea è volesse versare il TFR alla previdenza complementare occorrerebbe prevedere una copertura di almeno 620 milioni l'anno per le “mancate entrate” all’INPS; un’assurdità. 

Ma se lo sviluppo deve essere senza ulteriori costi per lo Stato, come si fa? E, così, anche per il 2024 non si è fatto nulla. Ad aggravare la situazione ci ha pensato Renzi alzando l'imposta sui rendimenti dall'11% al 20% e mantenendo, unico prodotto in Europa, la tassazione dei fondi pensione a cadenza annuale con il dannoso metodo del credito d'imposta che il ministro Pier Carlo Padoan non ha modificato quando introdusse i PIR (Piani di Risparmio Individuali) ai quali concesse di non pagare l'imposta sui rendimenti, "a vita" e per importi fino a 1,5 milioni di euro. Un metalmeccanico se va bene accantona la decima parte e viene tartassato dal fisco. 

Ora il governo vorrebbe rilanciare i fondi pensione: a) lasciando però il limite massimo dei versamenti ai vecchi 10 milioni di lire del 1999; b) senza alcuna modifica alla tassazione; c) senza reintrodurre il fondo di garanzia per le PMI; d) senza eliminare il Fondo INPS; e) senza semestri di silenzio-assenso perché troppo costosi; f) senza modificare le rendite come previsto dalla 252/05,viste dai lavoratori come un esproprio del loro montante accumulato, pur sapendo che oltre il 96% riscatta in capitale vanificando l’obiettivo primario dei fondi pensione. Però vorrebbe che i fondi pensione investissero di più in economia reale e nel citato fondo strategico. Ma i fondi devono prioritariamente pagare pensioni e se questi investimenti non rendessero? Chi pagherebbe le pensioni? 

Se si vuole sviluppare la previdenza complementare portando il rapporto tra patrimonio dei fondi pensione su PIL almeno alla media OCSE occorre coraggio e mettere mano al portafoglio cancellando lo sconquasso Prodi/Damiano. Oggi il rapporto patrimoni dei  fondi pensione su PIL è a circa il 12% contro oltre il 70% della media OCSE e lontano dal 100% dei Paesi del Nord Europa. Ce n’è di strada da fare; basta che il governo e anche le parti sociali ci credano. La transizione demografica è già iniziata ed è inarrestabile: quindi, meno lamenti e paure e più azione per non trovarci domani impreparati come lo siamo oggi che, finita la grande accelerazione della demografia e già in rallentamento, siamo ancora senza asili nido.

Alberto Brambilla, Presidente Centro Studi e Ricerche Itinerari Previdenziali

5/5/2025

 
 
 

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