Redditi e stipendi: siamo sicuri di essere sulla strada giusta?

Bonus, decontribuzioni e sostegni assistenziali costano oltre 100 miliardi, gran parte dei quali vanno a chi contribuisce poco o nulla alla crescita del Paese. Più fringe benefit, aumento dei buoni pasto e buoni trasporto tra le soluzioni per aumentare le buste paga senza gravare troppo sulle finanze pubbliche

Alberto Brambilla

Secondo l’OCSE, nel primo trimestre 2024, in Italia, il reddito reale pro capite delle famiglie è cresciuto del 3,4%, segnando l’aumento più forte tra tutte le economie del G7. Un risultato superiore alla media OCSE (+0,9%), trainato da un incremento dei redditi da lavoro dipendente e dai trasferimenti sociali in natura e in denaro erogati dallo Stato. Ovviamente, la notizia diffusa è stata accolta con soddisfazione dal governo e la premier Giorgia Meloni ha affermato che “siamo sulla strada giusta”. Ma è proprio così? 

La stessa Organizzazione per la Cooperazione e lo Sviluppo Economico, a fine giugno, ha registrato per l’Italia un calo del -6,9% dei salari reali rispetto al periodo pre-COVID (rapporto tra il primo trimestre 2024 rispetto al quarto trimestre 2019), classificando l’Italia al terzultimo posto tra i 27 Paesi preceduta solo da Repubblica Ceca e Svezia. E in effetti, sulla base dei dati Istat, l’inflazione cumulata 2020/2023 è del 16,2%, mentre nello stesso periodo i salari, per effetto dei rinnovi contrattuali, sono saliti di circa il 10,3%. A fine 2023, sempre OCSE rilevava che negli ultimi 30 anni l’Italia è l’unico Paese in cui si è avuta una perdita dei salari reali del 2,9%: nell’Est Europa i salari sono raddoppiati; hanno fatto poi registrare un +63% in Svezia, +39% in Danimarca, +33% in Germania, +32% Finlandia, +31% Francia, +25% Belgio e Austria e perfino +14% in Portogallo e +6% la Spagna! 

Da questi dati non pare che l’Italia sia sulla strada giusta per almeno 3 ordini di motivi. 1) In oltre 4 anni (da 2020 a metà abbondante del 2024), la contrattazione nazionale tra le parti sociali non pare abbia funzionato bene considerando un generale mancato recupero dei salari reali soprattutto nel turismo, nei servizi e nei servizi alla persona, dovuto in parte (dati Istat) anche ai ritardi nei rinnovi contrattuali: nel settore privato, i dipendenti in attesa di rinnovo sono il 18,2%, in diminuzione rispetto a giugno 2023 (erano il 39,7%) con una media di 23,2 mesi con contratto scaduto che scende a 4,2 mesi se calcolata sul totale dei dipendenti privati; nella pubblica amministrazione si è ancora in attesa dei rinnovi relativi al triennio 2022-2024. 2) I salari crescono poco anche perché è basso il tasso annuo di crescita della produttività: ottimo nel manifatturiero ma che diluito nel complessivo “sistema Italia” (agricoltura, servizi, turismo, servizi alla persona e PA) diventa assai basso e pari per il periodo 2012/2022 allo 0,27% contro una media UE a 27 dello 0,87%, del G7 a 0,69% e degli USA a 0,56%. Sarebbe quindi utile dirottare risorse pubbliche per incentivare, tramite crediti d’imposta, l’innovazione tecnologica nei settori chiave della ICT, mobilità, robotica (rischiamo di perdere l’ultima azienda straordinaria come la Comau), transizione energetica, ecologica e demografica. 3) Invece, anziché incentivare il lavoro, quello vero, con interventi che aumentino il potere reale dei redditi e salari, si punta tutto su sussidi, bonus, prebende a chi non ha mai o poco contribuito alla crescita del Paese: decontribuzione, prestazioni in denaro come AUUF e ADI tutte legate alla maledizione italica dell’ISEE che è il perverso motore, da un lato, della bassa crescita di salari, di bassa occupazione e bassa produttività e, dall’altro, di un enorme sommerso che abbassa il tasso reale di occupazione e le dichiarazioni dei redditi, gonfiando la spesa assistenziale. 

Sulla base dei dati dell’Osservatorio Statistico sull'Assegno Unico Universale dell’INPS, che include anche i nuclei beneficiari percettori di Reddito di Cittadinanza e dell’ADI (Assegno di Inclusione), nel 2023 per l’AUUF sono stati erogati 17,47 miliardi di euro. Nel corso dei primi sei mesi del 2024, l’Istituto ha erogato un totale di 9,9 miliardi di euro, destinati a 9,8 milioni di figli e 6,2 milioni di nuclei familiari per cui si presume una spesa totale 2024 di circa 20 miliardi.  Per l’ADI sulla base dei dati INPS relativi ai primi 5 mesi del 2024 sono state assistite 560.405 famiglie per un totale di 1.357.353  individui con un costo di 1,74 miliardi di euro e un importo medio mensile di 618 euro; proiettando su base annua, la spesa sarà di circa 4,5 miliardi. La decontribuzione prevede invece uno sconto del versamento dei contributi a parità di pensione: anziché 9,18% lo sconto sarà di 7 punti percentuali sullo stipendio per redditi fino a 15mila euro e di 6 punti percentuali sui redditi fino a 25mila euro; inoltre, è prevista la decontribuzione per le lavoratrici madri e altre categorie, il tutto  per un costo totale (dati INPS) di altri 23 miliardi. Poi ci sono gli sconti per il TIR (Trattamento Integrativo del Reddito) che, per i redditi prodotti nel 2022 (ultimo dato disponibile), valgono 4,5 miliardi, mentre le ulteriori detrazioni (sempre sui redditi 2022) valgono circa 10 miliardi. Facendo un'agevole somma, lo Stato - quindi tutti noi o, meglio, i "noi" che le tasse e i contributi le pagano (e siamo meno del 35% della popolazione) - ha erogato nel 2023 in denaro circa 62 miliardi, di cui per circa il 90% ha beneficiato il 65% dei cittadini che dichiariano redditi fino a 25-26mila euro l'anno. Per il 2024, supereremo i 65 miliardi. Da questa somma sono esclusi i servizi in natura come l’erogazione dei farmaci, il Servizio Sanitario Nazionale (quasi totalmente gratis per queste categorie), la scuola e molte forme di assistenza. Poi ci sono le pensioni assistenziali sulle quali non sono stati pagati i contributi, e che valgono altri 31,7 miliardi. Una spesa assistenziale che supera i 100 miliardi l’anno, tutti rigorosamente esentasse.

È questa la strada giusta? Siamo noi pochi cittadini onesti che dobbiamo supplire alle carenze della contrattazione tra le parti sociali, in primis lo Stato che neanche riesce a fare il contratto per i suoi dipendenti? Non sarebbe meglio aumentare i buoni pasto esenti magari a 13 euro al giorno per far mangiare umanamente i lavoratori? Introdurre i buoni trasporto, trasporto che oggi i lavoratori pagano con il loro salario già ridotto da contributi e tasse? Aumentare in modo strutturale i fringe benefit, fermi da oltre 40 anni, ad almeno 2.000 euro l’anno? Con queste tre semplici manovre che costano meno di un terzo rispetto a decontribuzione, TIR e bonus vari (che spesso favoriscono le aziende estere), un salario di 25mila euro aumenterebbe di circa il 17% e sarebbe un grande incentivo per il lavoro regolare. E poi c’è molto altro per le industrie in termini di ammortamenti e crediti d’imposta. Con la sola assistenza aumenteranno i voti e consensi (peraltro sempre più volatili) ma il Paese resterà al palo.  

Alberto Brambilla, Presidente Centro Studi e Ricerche Itinerari Previdenziali

 23/9/2024 

 
 

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