Come possono coesistere riduzione di orario, stabilità e flessibilità del lavoro

Il recente e innovativo accordo Luxottica ha portato alla stabilizzazione,  seppur con orario part-time,  di oltre mille lavoratori, riaprendo (in realtà impropriamente) il dibattito sulla questione lavorare meno per lavorare tutti: come rispondere in modo innovativo ai luoghi comuni su orario di lavoro e occupazione? 

Claudio Negro

In materia di orario di lavoro, una via nuova e molto interessante è quella indicata dall'accordo Luxottica. La novità è che ai lavoratori che già operano in azienda con contratti a termine o in somministrazione, quindi in modo discontinuo, viene offerta la possibilità di un contratto a tempo indeterminato sostanzialmente in part-time verticale: la prestazione di lavoro non sarà infatti full-time, ma varierà nei diversi mesi dell'anno, secondo uno schema prestabilito. La retribuzione, che sarà comunque superiore a quella che dovrebbe essere tenendo conto delle sole ore effettivamente lavorate grazie a un premo aggiuntivo annuo, verrà corrisposta in tredicesimi di annualità, per mantenere una stabilità retributiva.

Non si tratta quindi di una riduzione di orario che genera nuove assunzioni: l'orario di lavoro dei dipendenti stabili di Luxottica resta infatti invariato. In questo caso i lavoratori assunti erano già in forza all'impresa, con contratti a termine. Il nocciolo - e il merito - dell'operazione, sta nell'averli trasformati in contratti stabili, sia pure a part-time. Un accordo ottimo, che mostra come sia possibile una strada alla stabilizzazione dei contratti a termine per via negoziale prescindendo dall'apparato coattivo del cosiddetto Decreto Dignità ma che, al tempo stesso, come invece parzialmente accaduto nei giorni scorsi, non deve dare adito a fraintendimenti sui suoi possibili effetti. E, che soprattutto, ha poco a che vedere con il principio lavorare meno per lavorare tutti. Una questione ben diversa, che merita peraltro un'approfondita riflessione: vediamo perché. 

 

Una risposta innovativa ai luoghi comuni su orario di lavoro e occupazione 

Il rapporto tra orario di lavoro e occupazione è andato modificandosi nella storia in funzione dell'innovazione tecnologica dalla prima rivoluzione industriale, che di volta in volta ha reso possibile mantenere o addirittura aumentare il volume prodotto con l'utilizzo di sempre meno mano d'opera. Vale la pena notare che questa dinamica non ha mai distrutto occupazione, perché ha sempre prodotto nuovi lavori, direttamente nei processi produttivi o nei servizi sia all'impresa che alla società, creando nuova domanda e nuove professionalità.

Tuttavia, risulta duro a morire il pregiudizio per cui i “posti di lavoro” siano una sorta di torta predefinita, da dividere tra un numero variabile di beneficiari. Da qui, luoghi comuni come lavorare meno lavorare tutti o la convinzione che per ogni lavoratore che vada in pensione l'azienda assuma un giovane. Postulato, quest'ultimo, alla base, tra l'altro, dell'idea del pensionamento anticipato  con Quota 100, inevitabilmente smentito dai fatti.

Recentemente il Presidente INPS Pasquale Tridico ha ipotizzato una riduzione dell'orario di lavoro a parità di salario per aumentare l'occupazione e incentivare la riorganizzazione produttiva delle imprese. Ma perché mai un'impresa, avendo dipendenti che lavorano meno ore - senza che con ciò vi sia un risparmio sul costo del lavoro - dovrebbe assumere nuovi lavoratori, anziché chiedere a quelli in forza di fare un po' di straordinari (con reciproca soddisfazione...) o magari passare a una qualche forma di flessibilità che faccia crescere la produttività (ad esempio, turnazioni finalizzate alla saturazione degli impianti)? 

In realtà, la riduzione di orario ha avuto (e ha ancora) un'efficacia sostanzialmente difensiva, quando si tratta di salvare posti di lavoro per un periodo determinato e si realizza attraverso i contratti di solidarietà, ossia riduzioni di orario pro capite parzialmente compensate dall'intervento pubblico, la Cassa Integrazione, cioè una sospensione temporanea sempre parzialmente integrata dall'INPS o da un fondo di solidarietà bilaterale, e spesso tramite il part-time (volontario o meno).

Sotto gli occhi il caso perfino clamoroso documentato da ISTAT questi giorni: il numero di occupati attuale ha raggiunto, e anzi leggermente superato, quello precedente alla crisi, mentre sono ancora sensibilmente inferiori e le ore lavorate, totali e ovviamente pro capite. In qualche modo la profezia del lavorare meno lavorare tutti si avvera e l'occupazione riesce a resistere alla crisi, ma a farne le spese è il salario dei lavoratori che, infatti, non cresce e resta fortemente inferiore a quello di altri Stati comparabili con l'Italia, a partire da Germania e Francia. Del resto, se invece di creare nuovo lavoro si sceglie di redistribuire quello esistente, è intuibile che il reddito da lavoro seguirà la stessa sorte. Una difesa flessibile e intelligente ma che si sclerotizza in una decrescita generalizzata se non viene rimpiazzata, appena possibile, da politiche di crescita.

Pensare di produrre crescita dividendo ancora il lavoro esistente produce alla lunga ( e neanche tanto alla lunga...) sottoccupazione e sottoretribuzioni. L'unica strada per uscire da questo vicolo cieco è operare sulla produttività, che crescendo anche, al limite, senza incrementare occupazione e ore lavorate, aumenta il valore aggiunto e crea le condizioni per una crescita sia retributiva sia occupazionale. Il che però non può essere fatto a costo zero, come nell'idilliaco mito del lavorare meno lavorare tutti: occorre investire, eliminare colli di bottiglia, creare infrastrutture, introdurre più concorrenza a tutti livelli. 

Altro caso quello in cui la riduzione di orario pro capite sia fatta in funzione di soluzioni organizzative che incrementino la flessibilità e l'utilizzo degli impianti. Un'ipotesi scuola negli anni Settanta era quella secondo cui un'azienda che lavorasse su 3 turni avvicendati per cinque giorni alla settimana passasse a 6 giorni su 4 turni avvicendati: l'eventualità comportava che l'orario di ogni singolo lavoratore scendesse da 40 ore settimanali a 36, che l'azienda assumesse un'intera nuova squadra per il quarto turno, ma guadagnasse una giornata di produzione. Lo schema alla fine risultò poco praticabile perché troppo costoso per l'impresa. Ma su questo terreno furono molte le soluzioni innovative contrattate a livello aziendale per combinare riduzioni di orario individuale con schemi di turnazioni innovative. Nei casi di relazioni industriali più aperte (soprattutto nella petrolchimica, che lavora a ciclo continuo) si arrivò a schemi di turno 3-2, per cui ogni squadra aveva 3 giorni di lavoro e 2 di riposo. Questo schema d'orario consentì l'apertura alla “quinta squadra”, anche se poi in realtà quest'ultima si ridusse a una mezza squadra, con complicati slittamenti delle rotazioni nei turni.

In sostanza, è consolidato nel sistema delle relazioni industriali uno scambio tra riduzione di orario individuale e disponibilità a schemi di lavoro flessibili capace di produrre, come effetto collaterale, un incremento occupazionale.

In coerenza, con questa cultura quel che potrebbe probabilmente verificarsi con la rivoluzione digitale è che calino contemporaneamente le ore lavorate pro capite in funzione del mutamento qualitativo della prestazione lavorativa determinato dalla crescita di produttività generata dalla digitalizzazione del lavoro, e che aumenti il numero degli addetti, perché nell'impresa la nuova organizzazione del lavoro ingenera professionalità che prima non esistevano.

Questa prospettiva porta al seguito due problemi che richiederanno risposte: innanzitutto, è verosimile che si verificherà un mismatch notevole tra offerta e domanda di lavoro, per la conclamata inadeguatezza del sistema di istruzione-formazione del nostro Paese. In secondo luogo, il rischio concreto è che, soprattutto nel comparto dei servizi, si creino posti di lavoro anche relativamente numerosi ma di scarso contenuto professionale ed economico (tendenza che peraltro gli osservatori indicano come già in atto). 

Claudio Negro, Centro Studi e Ricerche Itinerari Previdenziali e Fondazione Anna Kuliscioff 

2/7/2019

 
 
 

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