Contratti a termine, per un approccio empirico all'esempio della legge spagnola sul lavoro

La nuova normativa spagnola sui contratti a termine ha riacceso il dibattito sul tempo determinato anche in Italia: dati alla mano, la situazione dei due Paesi non sembra essere davvero comparabile. Meglio allora guardare all'esempio di realtà economicamente e socialmente più avanzate come Germania, Francia e Scandinavia

Claudio Negro

Molta rilevanza ha avuto la recente legge sul mercato del lavoro approvata dalle cortes spagnole, legge che per quanto interessa a chi da noi si occupa della questione, riguarda soprattutto una normativa nuova sul contratto a termine. La rilevanza è dovuta essenzialmente al fatto che, sulla base di una lettura errata e strumentale dei dati sull’occupazione, il sindacato ha individuato un argomento che ben si presta a una battaglia nella quale sia facile arruolare l’opinione pubblica senza dover poi rendere conto in modo concreto e misurabile degli esiti. Un usato garantito, che come funzionò per i 5 Stelle ai tempi del "Decreto Dignità" (oggi sparito dai radar del mercato del lavoro e pudicamente taciuto anche dai suoi autori), oggi potrebbe funzionare per una mobilitazione sindacale, soprattutto se obiettivo della mobilitazione è la mobilitazione stessa. [...]

Per cominciare, cerchiamo però di riportare l’argomento “contratto a tempo determinato” a una dimensione più concreta e meno sensazionalistica. Cominciando a sottolineare una differenza tra Spagna e Italia che può motivare perché ciò che va bene in un Paese può non essere adatto all’altro. In Spagna il tasso di lavoratori a termine sul totale della popolazione in età da lavoro è superiore al 20% (valori riferiti al 2020) e soprattutto, prima della crisi COVID, si aggirava sul 23%; in Italia è inferiore al 12% e comunque non ha mai superato il 13%, esattamente nella media europea. La Spagna ha una quantità di lavoro a termine abnorme, superiore di gran lunga a quello di qualunque economia europea: che loro abbiano l’esigenza di intervenire è comprensibile, che la stessa esigenza l’abbia l’Italia non è così evidente, come non è evidente per la Francia, la Germania, l’Olanda, la Svezia, ecc., che infatti non intervengono.

Ma soprattutto val la pena di esaminare con serietà in cosa consiste il fenomeno, al di là dell’iconografia diabolica con cui è normalmente rappresentato, a cominciare dal fatto che  costituirebbe ormai il grosso dell’occupazione, o che sia avviato a diventarlo.                                                                                                               

Vediamo ora, per quanto riguarda l’Italia, la percentuale dei contratti a termine non più sul totale della popolazione, come per il valore riportato sulla Spagna, ma rispetto al totale dei lavoratori dipendenti. A novembre 2021 i tempi determinati erano il 17,1% di tutti i lavoratori dipendenti; a novembre 2019 (prima della crisi sanitaria) erano il 16,6%, e 12 mesi prima, nel 2018, il 17%. Per fare numeri crudi, ora i tempi determinati sono 3.086.000 e i tempi indeterminati 14.945.000. Nessuna evidenza che questo rapporto numerico tenda a cambiare: probabilmente, come Europa insegna, è strutturale rispetto alle economie manifatturiere evolute e nel sistema di servizi connessi.

Come mai allora gli avviamenti al lavoro sono in così gran maggioranza con contratti a termine? Innanzitutto non è una novità appena scoperta da sindacati e osservatori sbalorditi: basta leggersi - fatica che mal si concilia con l’inconfutabile immediatezza degli slogan - i Rapporti annuali sulle Comunicazioni Obbligatorie pubblicati dal governo per vedere subito come si sia di fronte a un trend consolidato da tempo. Nel 2018 le assunzioni con contratto a termine sono state poco meno di 8 milioni, nel 2019 poco di più, nel 2020 quasi 6 milioni e mezzo (ma era anno di crisi); circa 5 volte gli avviamenti con contratti a tempo indeterminato. Come mai? Per un insieme di ragioni: primo, soprattutto nei periodi di incertezza, le imprese scelgono di prendere la manodopera compatibile col lavoro prevedibile a breve termine, per non essere costrette poi a procedure di licenziamento complesse e comunque costose. Secondo, perché proprio sono a tempo limitato, i contratti a termine possono anche accumularsi su una stessa persona nel corso di un anno. Terzo, perché abbastanza spesso il contratto a termine precede l’assunzione a tempo indeterminato, un po’ come un periodo di prova. 

Vediamo qualche dato significativo. Il 67% dei lavoratori assunti nel 2020 ha avuto in quell’anno più di un rapporto di lavoro: nel 2018 e 2019, in media, ogni lavoratore assunto ha avuto rispettivamente 1,68 e 1,79 rapporti di lavoro. Un conto è il numero delle persone interessate da contratti a termine, un altro quello dei contratti stipulati che sono anche spesso ripetuti con gli stessi lavoratori. Importante il dato dei contratti a termine che vengono trasformati in assunzioni a tempo indeterminato: negli anni tra il 2018 e il 2020 sono stati tra i 500 e i 600mila per anno, di cui la maggioranza ha ottenuto la trasformazione tra i 90 e i 360 giorni di lavoro. È appunto il caso, di cui parlavamo sopra, di contratti a termine utilizzati come periodo di prova: tra il 7 e l’8% del totale, percentuale che aumenta di molto nel caso di lavoratori a termine somministrati. 

Al contrario di quanto comunemente si pensi, le assunzioni a termine non riguardano in modo particolare i giovani: sono spalmate in modo abbastanza equanime su tutte le fasce d’età, e anzi una lieve prevalenza c’è per la fascia tra i 35 e 54 anni. Sono invece molto significativi i dati relativi alle assunzioni a tempo determinato per comparto e professionalità: in testa di gran lunga il settore agricolo, dove le assunzioni a termine rappresentano il 99% del totale (complici anche le normative sulla disoccupazione agricola e i minimi contributivi). Seguono poi i manovali dell’edilizia (anche in questo caso si tratta di contratti a termine “per definizione”, perché l’organico viene composto e sciolto ad ogni inizio e fine di cantiere); poi facchini, autisti e in generale addetti alla logistica, il comparto dove si registrano le maggiori criticità. Altissimo, ma per ragioni note, il numero di assunzioni a termine nella scuola. Alla fine del 2020, su 6.500.000 assunzioni a termine, 2 milioni erano “fuori graduatoria”, legate cioè a dinamiche differenti dalla normale domanda delle imprese. In sostanza, i numeri più alti di assunzioni a termine riguardano contesti particolari per i quali il lavoro a termine è connaturato alle modalità caratteristiche dell’attività. E per tutta una serie di situazioni questo tipo di lavoro a termine è integrato con sussidi pubblici per i periodi di non-lavoro: è il caso della “disoccupazione agricola” (5-600.000 beneficiari all’anno) e delle indennità di disoccupazione per i lavoratori stagionali del comparto turistico.  

In secondo luogo si vede molto chiaramente che la stragrande maggioranza delle assunzioni a tempo viene effettuata per professionalità basse  e molto basse, e in settori utilizzatori di mano d’opera poco o niente qualificata, sostituibile facilmente come nella produzione tayloristica. E questa è realmente la questione: la domanda e l’offerta di forza lavoro di basso profilo che sopravvive alla periferia dell'Industria 4.0 e del suo indotto. Difficile però immaginare che una legge possa effettivamente obbligare una pizzeria di una località balneare ad assumere in pianta stabile il proprio personale, o un’impresa edile a stabilizzare i manovali a prescindere dal fatto che abbia o meno cantieri aperti. Il che, peraltro, è facile prevedere che non accadrà neppure nella miracolosa Spagna…[...]

È giusto porsi il problema di garantire maggior continuità nei rapporti di lavoro  ma è assai difficile ottenerlo con sole misure legislative. Né si può pensare, per paradosso, di ottenere risultati stabilendo di fatto l’esistenza di un unico contratto di lavoro, quello a tempo indeterminato perché questo richiamerebbe procedure molto più semplificate di risoluzione del rapporto di lavoro. Si finirebbe dalla padella nella brace. Dobbiamo però chiederci in quale direzione vogliamo andare: verso le realtà economicamente e socialmente più avanzate, come Germania, Francia e Paesi scandinavi o verso quelle più fragili, seppur in via di rilancio, come la Spagna ? 

In ogni caso tutto dipenderà dalla nostra capacità di trasformare le enormi risorse del progetto Next Generation EU, altrimenti noto come PNRR, in un veicolo di crescita dell’economia e della società del mercato in favore dei lavoratori.

Claudio Negro, Centro Studi e Ricerche Itinerari Previdenziali e Fondazione Anna Kuliscioff

31/1/2022

 
 
 

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