I dati sono buoni ma il nostro mercato del lavoro è seriamente malato

Dietro i buonissimi dati dell'ultimo rapporto Istat sull'occupazione si celano diversi aspetti reali ma anche alcuni effetti statistici, che rischiano di celare alcune delle principali storture del nostro mercato del lavoro. A preoccupare soprattutto i fenomeni NEET e mismatch 

Claudio Negro

Ancora decisamente buoni i dati del rapporto Istat sull’occupazione riferito al mese di novembre 2023: cresce il numero degli occupati (+ 30mila rispetto al mese precedente, addirittura +520mila rispetto a un anno fa) e cresce in termini “buoni”. Per l’83% si tratta di posti di lavoro a tempo indeterminato, e per il 70% di donne. Il tasso di disoccupazione giovanile scende (-2,4%), seppur soltanto come effetto statistico (aumentano gli inattivi) e la tendenza positiva iniziata dopo la fine dell’epidemia continua, fortunatamente. Ma è opportuno azzardare qualche spiegazione e qualche previsione. 

Quanto alle spiegazioni pare essere necessario far chiarezza sul perché un’economia con un PIL sostanzialmente fermo nell’ultimo anno, consumi interni, produzione industriale e indice di fiducia delle imprese altrettanto fermi, abbia potuto produrre negli ultimi mesi dell’anno una crescita occupazionale di qualità e quantità. La risposta è inevitabilmente che si è prodotto in gran quantità per l’expo (+65% rispetto al 2020) e che siamo stati competitivi anche grazie a costi di produzione costanti rispetto a quelli in crescita dell’UE: nel 2023 l’aumento del costo del lavoro, del tutto analogo a quello delle retribuzioni contrattuali, è stato poco superiore al 2%, a fronte di un’inflazione molto maggiore.Sarà utile, per un giudizio più completo, vedere anche il dato delle ore lavorate.

Un’osservazione interessante si può fare a proposito dell’età della popolazione occupata: nella misura del 77% ha oltre 35 anni, ed è un dato che aumenta lentamente ma costantemente, confermato da un altro numero significativo, ossia il tasso di disoccupazione rispetto alla popolazione delle classi di età. Nella fascia più anziana (50-64 anni), pur scontando un tasso di attività molto basso in relazione al congruo numero di pensionati, la disoccupazione è al 3,3%, nella fascia tra 35 e 49 anni al 5,6%. Mentre nella fascia più giovane (25-34 anni) è al 7,8%. Non è strano, in un Paese a crescita demografica sottozero, che sia più alto e in crescita il numero degli occupati anziani: ciò che è meno naturale è che sia significativamente più alto il tasso di disoccupazione dei giovani rispetto alla popolazione della loro età. Si sta parlando di persone con più di 24 anni, quindi normalmente al di fuori di percorsi formativi. Il che ci riporta a un fenomeno molto nostrano, quello dei NEET, cioè di coloro che non lavorano né studiano, che in Italia rappresentano il 25,1% della popolazione compresa tra i 15 e i 34 anni (circa tre milioni di giovani). I giovani che hanno abbandonato precocemente gli studi, ottenendo al massimo la licenza media e decidendo poi di non frequentare la scuola superiore o altri percorsi di formazione, costituiscono il 12,7% del totale, una cifra di 3 punti più alta rispetto alla media europea. Si tratta quindi di 517mila giovani complessivamente, appunto il 25,1% della classe di età, pari a circa il doppio della media UE (13%). Rilievo statistico di per sé tragico, ma ulteriormente peggiorato da quello relativo ai giovani che hanno completato il percorso di formazione ma non trovano lavoro, con cui si arriva al 40% del totale.

Questo dato è strettamente correlato a quello relativo al mismatch tra domanda e offerta di lavoro. Utile, ancora una volta, il riferimento all’osservatorio Excelsior-UnionCamere: per gennaio il sistema delle imprese ha bisogno di assumere 508mila persone, che si prevedono di difficile reperibilità per il 49,2% soprattutto per la mancanza di candidature. Un mercato del lavoro dal quale resta escluso (o si autoesclude) il 40% dei giovani e che contemporaneamente non riesce a trovare quasi il 50% dei lavoratori di cui ha bisogno è molto malato, nonostante le performance positive attuali.

Per un outlook valido anche nel medio-breve periodo può essere invece d'aiuto guardare innanziutto al PIL: quello del 2023 tende verso poco più di 0, sostenuto sostanzialmente dall’export; idem la produzione industriale. Il clima di fiducia delle imprese tende a scendere, così come gli indicatori di competitività tendono al ribasso (per la verità come in tutta Europa). Nei prossimi mesi sono difficilmente prevedibili scatti in avanti. O, meglio, è prevedibile che si consolidi la tendenza delle imprese ad assumere stabilmente, ma bisognerà vedere come impatterà in questo senso il rinnovo dei CCNL, soprattutto in quei comparti che, come il commercio, sono fermi da parecchi anni. In ogni caso, prima o poi occorrerà affrontare seriamente malattie e storture del mercato del lavoro italiano. 

 Claudio Negro, Fondazione Anna Kuliscioff e
Centro Studi e Ricerche Itinerari Previdenziali

22/1/2024

 
 
 

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