Il lavoro di qualità lo creano solo le politiche attive

I dati Istat relativi al mese di febbraio descrivono un mercato del lavoro tendente alla stabilizzazione: le assunzioni a termine preoccupano l'opinione pubblica, che teme un'occupazione di scarsa qualità ma, apprendistati compresi, le conversioni in contratti a tempo indeterminato non sono mai state così elevate dal 2019

Claudio Negro

Il rapporto su occupati e disoccupati pubblicato il 31 marzo dall’Istat con i dati aggiornati a febbraio non mostra particolari novità rispetto a quello del mese precedente. In sostanza si registra una graduale salita dell’occupazione, generalmente diffusa tra tutte le classi di età. E, come per il mese precedente, una modesta tendenza alla stabilizzazione.

Tuttavia il sindacato ha commentato questi dati muovendo alcune obiezioni, che meritano a propria volta di essere commentate. La prima è questi dati mostrano una crescita impetuosa dei rapporti di lavoro a termine: “abbiamo circa 3,2 milioni di occupati dipendenti a termine con un trend in forte crescita mese su mese, a tutto danno della stabilità lavorativa che si mostra, viceversa, in calo”. Ma i numeri dicono un’altra cosa. I tempi determinati sono il 13,84% ed erano il 13,15% a fine del 2019, prima dell’inizio della crisi COVID. Come si vede, un aumento molto modesto… Invece, la dinamica dei contratti stabili/a termine può essere meglio capita se, al posto di guardare solo ai dati di stock comunicati da Istat, si tiene anche conto dei dati di flusso (assunzioni-cessazioni) comunicati per lo stesso periodo da Ministero del Lavoro, ANPAL e Banca d'Italia. 

Allora si può notare che nel trimestre dicembre 2021/febbraio 2022, per quanto concerne i contratti a termine, il saldo tra avviamenti al lavoro e cessazioni è negativo: meno 14.000, tenendo conto delle trasformazioni da tempo determinato a contratto stabile (circa 79.000). Mentre per i contratti a tempo indeterminato c’è un saldo positivo importante: oltre 45.000, determinato da 262.000 nuove assunzioni, 105.000 trasformazioni in contratti stabili di rapporti a termine e di apprendistato, e da 323.000 cessazioni. Vale la pena fare due osservazioni: le cessazioni sembrano alte ma in realtà sono allo stesso livello del febbraio 2020 (pre-crisi) e comunque incorporano tutti quei licenziamenti economici che erano stati congelati nel 2021. Ma soprattutto va correttamente valutato il dato delle trasformazioni da tempo determinato e apprendistato in contratto a tempo indeterminato, mai così alto dal 2019. Il che è un indicatore evidente di stabilizzazione dell’occupazione, esattamente il contrario della precarizzazione! O, per dirla in modo che sia facilmente compresa, le assunzioni a termine sono alte ma tendono a trasformarsi in contratti stabili e non a sostituirli. 

Un argomento presentato dai sindacati è quello per cui l’accesso dei giovani al lavoro (visto che, nonostante tutto, l’occupazione giovanile sale) avverrebbe tramite contratti precari. Ma questa affermazione andrebbe verificata con dati oggettivi e non originati dal “comune sentire”. E comunque per un’analisi seria della questione, che ci riserviamo di svolgere in un prossimo report), è indispensabile prendere in considerazione il fenomeno del mismatch (mancato incontro tra offerta e domanda di lavoro) che ne è alla base.

Se si esaminano i flussi di assunzioni/cessazioni suddividendoli per comparti produttivi si vede che il comparto dei servizi (in particolare commercio e turismo) ha l’unico saldo negativo per quanto concerne i contratti a termine. Il che è indicativo di un’organizzazione del lavoro che cerca personale non specializzato, fungibile e occasionale. Evidentemente è diverso il clima del comparto manifatturiero o delle costruzioni, dove più spesso i contratti a termine vengono stabilizzati. Ma soprattutto questi dati dovrebbero indurre il sindacato a riflettere su come intervenire rispetto al fatto che mediamente ogni mese le aziende non riescono ad assumere 300.000 lavoratori per mancanza di candidature o (meno spesso) di profili professionali richiesti. Che è poi la risposta alla questione della “qualità del lavoro” che il sindacato pone sempre in alternativa ai contratti a termine poveri di salari e competenze. 

Su questo tema però le proposte latitano. Il problema di una scuola che invece di formare vive in un mondo tutto suo non è preso in considerazione e, quando parla di scuola, il sindacato lo fa solo per solidarizzare con gli slogan più fantasiosi degli studenti (alternativa scuola-lavoro = sfruttamento e omicidio, ecc.) o farsi carico delle rivendicazioni degli insegnanti precari, che alla scuola chiedono soltanto la propria stabilizzazione. Quando si parla di politiche del lavoro il sindacato è puntuale e determinato nel rivendicare quelle passive (integrazioni al reddito, blocco dei licenziamenti, rafforzamento dei sussidi di disoccupazione), ma del tutto assente nel dibattito sulle politiche attive: l’occasione del Recovery Plan e degli interventi che prevede in materia non suscita alcun particolare dibattito. Piani come il GOL (Garanzia di Occupabilità dei Lavoratori) e provvedimenti come il Fondo Nuove Competenze non sollecitano interventi di merito, proposte, confronto. Il massimo che si è ricavato finora è la rivendicazione di stabilizzare i navigator, che per ragioni oggettive hanno dato modesti risultati (molti alla fine avranno collocato fondamentalmente loro stessi).

Disegnare un sistema di servizi al lavoro non puramente amministrativo, ottimizzare le risorse e le esperienze, coinvolgere le Agenzie per il Lavoro, costruire un sistema di formazione continua capace di intercettare i bisogni reali, un sistema informativo che consenta un governo razionale dell’incontro domanda-offerta. Questo è ciò che serve al nostro mercato del lavoro per fare quel salto che ci permetta di avvicinare le medie europee e di creare lavoro qualificato per quei giovani e quelle donne che oggi sono penalizzati da lavori a termine non voluti, part-time involontari, sottoccupazione. 

Purtroppo però nel sindacato (con qualche eccezione, basti ad esempio pensare al dibattito precongressuale della FIM CISL) sembra ancora prevalere il riflesso pavloviano per cui il lavoro di qualità si crea vietando per legge quello dequalificato, così come i contratti a tempo indeterminato si incrementano impedendo per via legislativa quelli a termine. 

 Claudio Negro, Fondazione Anna Kuliscioff e Centro Studi e Ricerche Itinerari Previdenziali      

 

5/4/2022

 
 

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