Il problema dei salari italiani

Nel confronto con l'Europa a soffrire in Italia sono soprattutto le retribuzioni di fascia più alta, con il grosso dei salari distribuito abbastanza uniformemente in una fascia centrale medio-bassa: colpa anche di un sistema contrattuale vetusto, più propenso alla ricerca di sgravi fiscali che di stimoli per la produttività

Alberto Brambilla e Claudio Negro

È diventato ormai un luogo comune il racconto politico-sindacale di una società italiana che progressivamente si impoverisce e al cui interno aumentano le diseguaglianze di reddito, a causa soprattutto di salari troppo bassi. Anzi, a dire il vero si tratta di un’argomentazione piuttosto recente, perché fino a poco tempo fa la narrazione imperante voleva che, con Statuto dei Lavoratori e Contratti Collettivi nazionali (CCNL), la tutela fosse eccellente! E, invece, per l’OCSE, l’Italia è l’unico Paese dove negli ultimi 30 anni i salari hanno perso il 2,9% in termini reali.

Ma chi ci ha perso? Secondo i dati Eurostat, la paga oraria media lorda, espressa a Parità di Potere d’Acquisto, nel 2021 in Italia è stata di 15,55 euro contro i 16,9 dell’area Euro, i 19,66 della Germania e i 18,01 della Francia, mentre la retribuzione mensile lorda è stata di 2.520 euro in Italia, 2.825 nell’area Euro, 3.349 in Germania e di   2.895 euro in Francia. Per quanto riguarda infine la retribuzione annuale lorda Eurostat dice che, nel 2021, è stata in Italia di 34.032 euro, dunque inferiore alla media europea di 36.349 euro; meglio di noi sia la Francia con 39.971 che la Germania, con 52.248 euro lordi. Secondo Job Pricing, che prende in considerazione i dati OCSE, nel 2020 i salari italiani erano al 25esimo posto su 36 Paesi, pari all’80% della retribuzione media OCSE, con differenze tra la retribuzione contrattuale e quella di fatto piuttosto bassa (al 2,3%).

I salari sono dunque mediamente bassi, ma sostanzialmente per il fatto che la differenza tra salari alti e bassi è tra le più contenute in Europa: i salari "bassi", ossia quelli inferiori ai 2/3 del salario mediano, sono inferiori alla media totale solo del 3,7%, mentre quelli "alti", ossia superiori alla mediana di una volta e mezzo, hanno importi inferiori del 19%, i più bassi dopo la Germania (18,7%). Il grosso dei salari si distribuisce quindi abbastanza uniformemente in una fascia centrale medio-bassa, anche perché è modesta la differenza di retribuzione per livello d’istruzione: tra i livelli più bassi (primaria e/o secondaria inferiore) e più alti (terziaria e superiore), in Italia, è tra 27.806 e 44.104 euro annui. In Germania, rispettivamente, di 27.005 e 68.144 euro all'anno; in Francia 28.115 e 47.696 euro; nell’area Euro 25.518 e 51.200.

Ancora una volta troviamo che le retribuzioni "basse" sono più alte della media europea, ma quelle “alte” sono più basse: ecco spiegato il perché i salari sono mediamente bassi e hanno perso potere d’acquisto in 30 anni, soprattutto per colpa di quelli "alti", visto che quelli più bassi hanno una buona performance. Anche la distribuzione per classi di età delle retribuzioni italiane mostra una curva più schiacciata rispetto a quelle di Germania e Francia: la crescita, tra i salari di chi ha meno di 30 anni e di chi ne ha più di 50, è del 52% nel nostro Paese, del 58% in Germania e del 59% in Francia. Per quanto concerne il gender gap ci collochiamo invece a metà classifica, in buona compagnia di Norvegia e Finlandia con un indice del 16%. Importante anche esaminare come cambia il salario a seconda del settore produttivo: nella comparazione con i dati Eurostat, la differenza tra la retribuzione nell’industria di processo (normalmente la più alta esclusi i servizi finanziari) e i servizi, fatta eccezione per la Pubblica Amministrazione è del 23,5% in Germania, del 13% in Francia, del solo 7% in Italia e del 14,5% nell’area Euro. Questo appiattimento del dato italiano è dovuto essenzialmente a un livello relativamente alto della retribuzione nei servizi (soltanto -8,7% rispetto all'area Euro, -7,5% rispetto alla Francia, -24% rispetto alla Germania) e piuttosto basso per l’industria di processo (-17% con l’area Euro, -43,8% con la Germania, -14,7% con la Francia). 

Tutto questo è il risultato qualitativo e quantitativo della superata filosofia dei contratti nazionali, che sono troppi: 900 depositati al CNEL, anche se quelli in uso sono meno della metà, la gran parte sottoscritti da CGIL, CISL, UIL e coprono circa il 97% dei lavoratori. Scarsissima quindi l’influenza, anche statistica, dei “contratti pirata” e dei senza contratto. Come dimostra ADAPT, basta prendere in considerazione gli Uniemens presentati all’INPS nei quali va riportato il codice del CCNL applicato: i lavoratori del settore privato sono 13.643.659 e soltanto in 729.544 casi l’UNIEMENS non indica il CCNL (dati 2021), il che significa - probabilmente esagerando - che tra i 500 e 700mila dipendenti lavorano senza un CCNL. Quindi tra il 3% e il 5%, mentre la copertura contrattuale tutela almeno 12.900.000 dipendenti privati, più 3.200.000 dipendenti pubblici. Restano fuori 950.000 lavoratori dell’agricoltura e circa 800.000 lavoratori domestici che hanno trattamenti contrattuali di impianto molto diverso dai CCNL tradizionali, e spesso applicati meno rigorosamente.

In conclusione, la contrattazione collettiva in Italia è largamente applicata, con quote non lontane dal 100% e i dati indicati descrivono bene gli obiettivi sindacali: garantire i lavoratori di bassa professionalità e delle piccole imprese appiattendo al massimo i livelli retributivi, sostenendo la fascia inferiore che risulta mediamente alta rispetto alla media europea, mentre quelli alti sono meno tutelati sicché i salari medi contrattuali sono bassi rispetto ai livelli europei, poco diversificati per professione, titolo di studio, età e comparto. Insomma, un sistema contrattuale vetusto, molto accentrato, imperniato sulle fasce più deboli, troppo propenso all’egualitarismo, con scarso interesse per la produttività e per i contratti di secondo livello che esalterebbero le specificità delle aziende, e sempre alla ricerca di sgravi fiscali e bonus ma solo per i lavoratori di fascia bassa e medio bassa. E, infatti, il 60% dei lavoratori non paga nulla di IRPEF (per questo astutamente i sindacati chiedono gli sgravi contributivi) mentre i 5 milioni di contribuenti che dichiarano da 35mila euro di reddito in su, ignorati dai sindacati, pagano il 60% di tutte le imposte, non hanno bonus e agevolazioni (neppure dal meritorio Governo Draghi) e non sono difesi da nessuno.

Prevalgono l’egualitarismo sul merito e i diritti sui doveri. Non ci possiamo allora lamentare se il Paese è il fanalino di coda in tutte le classifiche positive riguardanti il mercato del lavoro e primo invece per evasione fiscale, malavita, gioco d’azzardo e così via.

 Alberto Brambilla, Presidente Centro Studi e Ricerche Itinerari Previdenziali

 Claudio Negro, Fondazione Anna Kuliscioff 
e Centro Studi e Ricerche Itinerari Previdenziali 
 

13/9/2022

L’articolo è stato pubblicato su Il Foglio del 18/8/2022
 
 

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