Redditi in discesa e contratti in crescita: perché i salari reali calano solo in Italia?

Negli ultimi 30 anni gli stipendi medi reali italiani sono calati del 2,9% mentre, nello stesso periodo, in Francia sono cresciuti del 31% e in Germania del 33%. Tra le cause, anche un'autentica giungla di accordi, fatta di oltre 990 contratti nazionali, spesso datati e svincolati dalla dinamiche di produttività

Alberto Brambilla

Ormai il dato è noto a molti: negli ultimi 30 anni, secondo le analisi OCSE, l’Italia è l’unico Paese che ha avuto una perdita dei salari reali medi stimata nel 2,9%, un abisso rispetto agli altri Paesi. In quelli dell'Europa dell'Est i salari dei lavoratori dipendenti sono quasi raddoppiati, in Svezia sono aumentati del 63%, in Danimarca del 39%, del 32% in Finlandia, in Germania del 33%, in Francia del 31%, in Belgio e in Austria del 25%, in Portogallo del 14% e in Spagna del 6%.

L’altro dato assai discusso emerge dalla bozza di direttiva europea sulla proposta di “salario minimo”. Nel testo si legge che tali regole dovrebbero essere applicate a quei Paesi che hanno una copertura contrattuale, ovvero il livello dei salari definito dalla contrattazione collettiva, inferiore all’80%: in Italia, tale copertura è pari a oltre il 90% e, anzi, secondo il CNEL, dai flussi delle comunicazioni obbligatorie UNIEMENS inviate all’INPS, si ricava che i contratti firmati da CGIL-CISL-UIL - principalmente con Confindustria e altre associazioni di categoria quali Confcommercio e Confartigianato - coprono 12.527.049 di lavoratori, cioè il 97% circa del totale, lasciandone solo 387mila con altri contratti, tra cui i cosiddetti (e innumerevoli) “contratti pirata”.

A fronte di questi due dati è legittimo chiedersi se l’impostazione contrattuale italiana, vista la poco “efficiente” evoluzione dei salari e l'insufficiente protezione del potere d’acquisto dei lavoratori, possa continuare così. La seconda domanda da porsi è se questa modalità di gestione della contrattazione collettiva, che non ha riscontri simili in Europa, possa essere se non una causa, almeno una concausa del basso tasso di occupazione. Infine, se le eccessive tutele sindacali e assistenziali - comprese le continue proposte di abbassamento delle età di pensionamento che, comprese Quota 100 e le nove salvaguardie in soli 10 anni hanno consentito a circa 900mila lavoratori di lasciare il posto con requisiti di età inferiori a quelli previsti dalla riforma Fornero - oltre a incidere pesantemente sul bilancio pubblico, non abbiano giocato un ruolo negativo nella riduzione della “propensione al lavoro”.

Per sgombrare il campo da possibili fraintendimenti, dichiaro subito che non sono favorevole all’introduzione del “salario minimo” per legge e sono per il lasciare alle parti sociali la “contrattazione”. Tuttavia, qualche risposta ai quesiti precedenti e quindi qualche analisi è necessaria, proprio perché i risultati italiani sono insoddisfacenti e ci collocano all’ultimo posto delle classifiche positive e invece al primo per spesa assistenziale, NEET, lavoro nero, evasione fiscale e altro ancora.

Iniziamo con i contratti nazionali: secondo la Fondazione Giuseppe Di Vittorio, negli ultimi 10 anni quelli depositati al CNEL sono passati dai 551 del 2012 ai 992 del 2021, anche se quelli effettivamente attuati, secondo lo stesso Consiglio Nazionael dell'Economia e del Lavoro, sono 419, di cui 162 sottoscritti dai tre sindacati confederali. Che siano troppi, che generino ulteriore burocrazia, di cui non si sente il bisogno, e ulteriori vincoli che potrebbero generare effetti negativi sulla produttività, non ci sono dubbi. Basterebbero pochi contratti nazionali ben strutturati e lasciare poi alla contrattazione territoriale o aziendale la crescita dei redditi da lavoro correlata alla produttività e alla “maturity” dell’azienda: pensare e agire come fossimo tutti uguali, senza considerare la produttività del lavoro, o pensarla alla uno vale uno non è un bene per i lavoratori.

Oltre a essere troppi, molti contratti sono anche scaduti, alcuni da più di due anni e, per la loro impostazione, hanno quasi bloccato la dinamica individuale dei redditi con una crescita salariale (anche a seguito degli accordi Ciampi del 1993), modesta; raccordo tra salari e produttività quasi inesistente. Invece, si è rafforzata la parte “benefici” (tredicesima e quattordicesima mensilità, TFR, ferie, festività, banca delle ore, permessi retribuiti, fondo complementare, assistenza sanitaria integrativa e altro), benefici che hanno fatto schizzare il costo del lavoro. Fatta 100 la retribuzione netta in busta paga per l’Italia arriviamo a 207 (fonte: Centro Studi Confindustria 2017) contro il 199 della Germania e il 192 della Francia. Va detto che le differenze sul costo del lavoro si ridurrebbero se non fosse che da noi la contribuzione previdenziale è al 33%, in Francia è al 27,5%, in Germania al 18,7%; Svezia e Svizzera sono appena sopra il 20%, compresa per quest’ultima la contribuzione obbligatoria di secondo pilastro.

Nell’area OCSE, nel 2017, in media solo il 32% dei lavoratori era coperto da accordi sindacali collettivi; eppure, lì i salari sono cresciti mentre da noi languono. Forse è necessario chiederci il perché! Non è di poco conto notare che anche sulla parte “organizzazione del lavoro” i nostri contratti sono vecchi di decenni e non prevedono uno sviluppo delle carriere in funzione dell’età e della situazione fisica dei soggetti: solo grandi richieste di prepensionamenti e intanto gli over 65 continuano ad andare sui ponteggi o a guidare macchine rischiose, con i risultati che purtroppo vediamo. Ma gli eccessivi vincoli e il quasi totale disinteresse per i percorsi formativi correlati alle esigenze del mercato del lavoro creano anche le premesse per un mancato sviluppo dell’occupazion,  che infatti ci vede ultimi nelle classifiche Eurostat con oltre 10 punti di ritardo sulla media UE e primi per i NEET.

Oltre a prepensionamenti, l’unica soluzione proposta dai sindacati e dalle organizzazioni datoriali, visti i pesanti effetti inflattivi, è la riduzione del cuneo fiscale senza rinunciare a nessun istituto contrattuale. Considerato che gran parte dei lavoratori paga un’IRPEF molto modesta, chiedono la decontribuzione di almeno 3 punti, a carico però del bilancio pubblico, e quindi a debito dei giovani, per oltre 15 miliardi l’anno. Poche invece le richieste su welfare aziendale, defiscalizzazione degli straordinari, aumento del buono pasto, introduzione del buono trasporti, contrasto di interessi e riduzioni per le nuove attività autonome: misure che potrebbero aumentare anche del 10% i salari, fino a 25mila euro. Forse una riflessione su chi negli ultimi 30 anni ha gestito la contrattazione collettiva andrebbe fatta.

 Alberto Brambilla, Presidente Centro Studi e Ricerche Itinerari Previdenziali      

13/7/2022

L’articolo è stato pubblicato sul Corriere della Sera, L'Economia del 4/7/2022
 
 

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