Italia poco attrattiva e meritocratica: i giovani preferiscono l'estero

Scarsa meritocrazia, poche opportunità, salari inadeguati sono tra le ragioni che spingono molti giovani italiani a cercare maggiore fortuna fuori dai confini nazionali. Una perdita di "capitale umano" che, complice l'incapacità di attrarre risorse qualificate dagli altri Paesi, contribuisce ad alimentare il problema del mismatch

Bruno Bernasconi

L’Italia non è un Paese per giovani. Un assunto divenuto ormai quasi un cliché ma che, al netto di proclami e allarmismi, affonda le sue radici non solo nelle tendenze demografiche ma anche in alcuni dati che certificano una mancanza di politiche e opportunità a favore delle nuove generazioni, alimentando tra queste un sentimento di malcontento. Complice anche lo scoppio di diverse crisi, i governi degli ultimi 10-15 anni sembrano aver tralasciato interventi a sostegno di ricerca, sviluppo, istruzione e produttività a vantaggio di misure di natura assistenziale, trascurando competitività e innovazione ma gonfiando il debito pubblico fino a superare la soglia dei 3.000 miliardi di euro che graveranno sugli italiani di domani. 

E così, negli ultimi anni, si è accentuato il fenomeno migratorio dei giovani verso l’estero con una conseguente perdita di capitale umano, spesso qualificato, che contribuisce a fomentare uno dei principali problemi del nostro mercato del lavoro, ossia quello del mismatch tra domanda e offerta. Il tutto in un momento storico caratterizzato dal progressivo invecchiamento della popolazione, che impone profonde riflessioni in tema di occupazione e sistemi di welfare. Semplificando, i giovani sono sempre di meno e molti di questi sono sfiduciati nei confronti del sistema Paese preferendo trasferirsi fuori dai confini nazionali

Figura 1 - Saldo tra emigrati e rientri tra i 18-34 anni

Figura 1 - Saldo tra emigrati e rientri tra i 18-34 anni

Fonte: Fondazione Nord Est

Questo, almeno, è quanto emerge dal rapporto "I giovani e la scelta di trasferirsi all’estero" realizzato dalla Fondazione Nord Est, secondo cui dal 2011 al 2023 sono 550mila i giovani italiani di 18-34 anni emigrati all’estero a fronte di 172mila rientri, per un saldo negativo di 377mila, anche se il dato reale potrebbe essere di molto superiore alla luce del fatto che molti mantengono la residenza italiana. In termini di capitale umano, si stima una perdita di valore di 134 miliardi, cifra che potrebbe addirittura triplicarsi se si considera la sottovalutazione dei dati ufficiali. Non si tratta di un bilancio che si pareggia con un afflusso in direzione opposta, ma di un interscambio fortemente squilibrato con l’estero sia nei numeri sia nelle competenze, confermando la scarsa attrattività del Paese. L’Italia, infatti, partecipa alla circolazione di talenti quasi esclusivamente come fornitrice, senza al contempo “importare” forza lavoro qualificata con l’inevitabile conseguenza di alimentare il problema del mismatch. Il 73,3% di chi ha lasciato il Belpaese per scelta svolge attività intellettuali o impiegatizie, mentre il 58,2% di chi se ne è andato per necessità è impiegato in ruoli per i quali in Italia le imprese denunciano una particolare carenza come tecnici, professioni qualificate nei servizi, operai specializzati e semi-specializzati, per un totale di oltre 180mila giovani lavoratori all’estero occupati in tali attività.

Per ogni giovane che arriva in Italia dai Paesi avanzati, inoltre, sono 8 gli italiani che decidono di trasferirsi all'estero. L'Italia si piazza all'ultimo posto in Europa per attrazione di giovani, accogliendo solo il 6% di europei, rispetto al 10% e al 14,1% del penultimo e terzultimo posto occupati da Danimarca e Svezia e ben lontano dalle prime posizioni di Svizzera (34%) e Spagna (32%). 

Figura 2 – Percentuale sul saldo tra emigrati e rientri tra 2011 e 2023 per area geografica

Figura 2 – Percentuale sul saldo tra emigrati e rientri tra il 2011 e il 2023 per area geografica

Fonte: Fondazione Nord Est

A livello regionale, il deflusso maggiore proviene dalle regioni più ricche del Nord (bisogna considerare il fenomeno migratorio dal Mezzogiorno che ha come meta il Settentrione): nel dettaglio, il saldo del Nord-ovest è negativo di 99.168 (il 4,4% della popolazione 18-34 anni), di 79.778 per il Nord-est (4,8%), di 57.237 per il Centro (3,4%) e 141.088 per il Sud e Isole (4,1%). Nel periodo 2011-2023 dalle regioni settentrionali sono emigrati oltre 280mila giovani italiani a fronte dell’arrivo di quasi un milione (968.508) di giovani stranieri. Di questi, però, solo un quinto proviene dai Paesi dell’Unione Europea e il resto da Paesi extra UE, che spesso presentano uno sviluppo economico e livelli di istruzione molto diversi da quelli dell’Italia. All’interno dei flussi dall’UE sono appena 22mila i giovani arrivati dai Paesi più avanzati, cui si aggiungono 8mila da Regno Unito, USA e Svizzera.

Il risultato? In primo luogo, tale emigrazione contribuisce ad accentuare ulteriormente la transizione demografica in atto che vede il progressivo invecchiamento della popolazione, con un inevitabile corrispondente invecchiamento anche della forza lavoro. Tra il 2004 e il 2024 il numero di occupati nella fascia di età 15-34 è diminuito da 7,49 milioni a 5,33 milioni con un tasso di occupazione sceso dal 51,5% al 44,2% tra i peggiori in Europa, mentre gli inattivi sono aumentati leggermente da 5,87 a 5,99 milioni ma con un tasso di inattività salito dal 40,4% al 49,8%. Primeggiamo, invece, per numero di NEET che a fine 2023 erano il 28,5% tra i 15-34enni, sebbene in diminuzione dal 32,2% del 2011, dietro solo alla Grecia e rispetto alla media UE del 19,7% (26,4% nel 2011). 

Altro campanello di allarme riguarda uno stato d’animo che appare diametralmente opposto tra chi ha deciso di espatriare e chi, al contrario, di rimanere: secondo il documento, il 56% degli expat dal Nord Italia si dichiara soddisfatto del proprio livello di vita, contro solo il 22% dei giovani che sono rimasti, e l’86% crede che il proprio futuro dipenda dal loro impegno, a fronte del 59%. La visione del futuro è nettamente più positiva tra chi ha lasciato l'Italia: il 69% si aspetta un domani "felice", contro il 45% di chi è rimasto, il 67% lo ritiene "ricco di opportunità", rispetto al 34%. Al contrario, tra i giovani che restano in Italia prevalgono le visioni negative: il 45% teme un futuro "incerto", il 34% lo vede "pauroso", il 21% lo ritiene "povero", e il 17% lo immagina "senza lavoro", contro percentuali molto più basse tra gli expat. Tanto più che il 33% degli espatriati ha intenzione di rimanere all’estero, contro il 16% che sa che ritornerà in Italia (prevalentemente per ragioni familiari), mentre il 35% dei giovani residenti nel Nord Italia si dice pronto a trasferirsi all'estero soprattutto per le migliori opportunità lavorative (25%), opportunità di studio e formazione (19,2%) e la ricerca di una qualità della vita più alta (17,1%). Solo il 10% considera il salario più elevato come principale ragione per l'espatrio, nonostante il gap retributivo rispetto agli altri Paesi (che, a onor del vero, riguarda i salari italiani in generale).

Secondo uno studio del Consiglio Nazionale dei Giovani, più del 43% degli under 35 guadagna meno di 1.000 euro al mese e il 32,7% tra i 1.000 e i 1.500 euro, complici anche situazioni precarie. In base ai dati Eurostat, nel 2023 il salario medio per occupato lordo nell’UE 27 37.900 euro, rispetto ai 32.700 euro dell’Italia (su cui pesa, inoltre, un cuneo fiscale tra i più elevati). 

Nel complesso, al netto di giudizi riguardanti fattori culturali, le politiche pubbliche e la qualità della vita, quello che emerge è la visione di un Paese, il nostro, poco meritocratico, carente di opportunità e che fatica a valorizzare i giovani, determinandone la poco attrattività. In ambito lavorativo, i salari sono ritenuti inadeguati all’impiego svolto e al costo della vita, così come vengono valutate negativamente le occasioni di lavoro in settori innovativi e le prospettive di crescita professionale. Urge un’accelerazione su formazione e politiche attive del lavoro, oltre a una spinta sull’innovazione del panorama delle imprese, considerato ancora molto tradizionale e quindi dallo scarso appealing. I rischi spaziano dal compromettere la sostenibilità del sistema di welfare, alla perdita di competitività e alla difficoltà di implementare le transizioni ecologica e digitale. 

Bruno Bernasconi, Centro studi e Ricerche Itinerari Previdenziali

10/3/2025

 
 
 

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