Lavoro a termine e part-time, non solo ombre

La crescita del lavoro a termine e di quello part-time tende sin troppo spesso a essere associata negativamente a fenomeni di precarietà: una convinzione che, soprattutto in una fase di crescita, va tuttavia ripensata alla luce di un mercato del lavoro fluido e funzionante 

Claudio Negro

Sui recenti dati sull’occupazione di ISTAT sono stati fatti una serie (e anche seri) distinguo, che possiamo così riassumere: gran parte dei nuovi posti di lavoro sono “precari” (si legga, a termine). Le ore lavorate, nonostante la crescita delle posizioni lavorative, sono ancora inferiori a quelle lavorate nell’ultimo anno ante crisi (2008). Sono dati di fatto che meritano una riflessione.

Quanto ai contratti a termine abbiamo già avuto modo di notare come, pur cresciuti rispetto al 2008, sono sostanzialmente in linea con la media europea e inferiori a Paesi come Germania e Olanda, in cui a questa occupazione di solito non si affibbia l’epiteto di “precaria”. E’ fondata l’obiezione che denuncia come le retribuzioni di questi posti di lavoro siano ai minimi. Le ragioni, al netto di comportamenti irregolari dei datori di lavoro sempre possibili a prescindere dal contratto applicato, stanno essenzialmente nella breve durata del rapporto di lavoro, che taglia fuori il lavoratore da tutta una serie di retribuzioni o prestazioni legate all’anzianità, e spesso dai premi variabili legati al risultato, se vengono computati in termini di 12 mesi.

Sul piano statistico occorre anche tener presente che la maggior parte delle assunzioni a termine riguardano posizioni professionali di basso inquadramento e, quindi, di retribuzione contrattuale inferiore, che sposta verso il basso la media salariale di questa fascia di lavoratori: circa il 24% dei posti di lavoro a basso contenuto professionale nel 2016 era a tempo determinato, contro il 14,4% di tempi determinati rispetto al totale degli occupati; proporzione peraltro comune a quasi tutti Paesi Europei, con la notevole eccezione della Germania e del Regno Unito, dove i contratti a termine sono spalmati abbastanza uniformemente su tutti i livelli professionali. Nella zona euro comunque il dato è simile a quello italiano, con il 23% dei posti a basso contenuto professionale occupati da lavoratori a termine; fanno eccezione Olanda e Svezia, rispettivamente con il 35% e il 30%. Da notare che in questi due Paesi l’occupazione a tempo determinato sul totale è rispettivamente del 21% e 18%: ben più alta della nostra che si colloca oggi al 14,4%. Probabilmente sarà necessario fare un’indagine più approfondita sui contratti a termine, acquisendo dati che oggi ci mancano circa la loro reiterazione o periodicità in capo ai singoli lavoratori e alle aziende, in modo da definire il loro ruolo in un mercato del lavoro sano ma flessibile, che non necessariamente è sinonimo di precariato.

Le ore lavorate non hanno ancora raggiunto il livello del 2008: da 11.000 miliardi di ore stiamo a 10.900. Anche le ore lavorate pro capite, che erano 455 al trimestre nel 2008, sono ora 433. Ma si presenta un fenomeno notevole: la produttività, misurata in valore aggiunto per ora lavorata, ha avuto un incremento medio annuo dell’1% durante la recessione, quando l’occupazione calava, e ha cominciato a flettere nel 2015, quando l’occupazione ha ripreso a crescere. Questo dato merita di essere messo a confronto con i dati analoghi dei Paesi europei. I numeri che abbiamo sono relativi al 2106, ma i valori non si sono scostati in modo significativo: in Italia le ore effettivamente lavorate in una settimana, tenuto conto di assenze per vari motivi ma anche degli straordinari, sono state 33, nel Regno unito 32, in Svezia 31, in Svizzera 30, in Francia 28, in Olanda 27, in Germania 26. E’ evidente che in questi Paesi la produttività del lavoro è superiore alla nostra.

Il dato di prima messo in relazione col secondo induce a pensare che molte imprese stiano scegliendo di recuperare (e superare) i valori ante crisi spingendo più sulla produttività che sul ripristino degli organici. Sensazione confortata dal dato delle ULA (Unità Lavorative per Anno, rapportate cioè a quanti tempi pieni equivalenti ci sono, anche se composti da due o più part-time) secondo cui, mentre rispetto al punto più nero della crisi, il 2013, le ULA sono aumentate del 3%, le ore lavorate per occupato sono aumentate solo dello 0,8%. E’ chiaro che l’introduzione graduale dell’innovazione digitale incrementerà questa tendenza.

Se le cose stanno così, occorrerà anche aggiornare il punto di vista sui part-time, il cui aumento è la spiegazione del dato precedente. Infatti i contratti a tempo parziale, nelle sue numerose varietà, sono passati dal 14% del totale degli occupati (dati 2008) all’attuale 19% (su un numero ormai uguale di occupati), il che spiega il livello di ore lavorate più basso rispetto a quello del 2008.

Il dato è perfettamente allineato con la media UE, ma un altro parametro se ne discosta in modo significativo: il 38% delle donne occupate ha un contratto part-time, mentre solo l’8% degli uomini occupati è a tempo parziale. Il rapporto tra part-timer donne e uomini è un po’ superiore a 3 a 1: la media europea è di 2,6 a 1; tuttavia siamo in buona compagnia: la Francia è al nostro livello, Germania e Austria sono molto più in su, la Germania addirittura ha un rapporto 4 a 1. Da notare che i Paesi con i rapporti più bassi, quindi che tendono alla parità nella distribuzione del part-time, sono quelli meno sviluppati dell’area europea: Cipro, Bulgaria, Romania, Macedonia. D’altra parte, non si può non vedere che in tutta la durata della crisi l’occupazione femminile ha resistito meglio di quella maschile, e che adesso, a crisi in via di conclusione, ha stabilito il record di tutti i tempi con il 49,2%.

In buona parte è occupazione part-time, certo, ma siamo sicuri che sia un fatto negativo? In Olanda quasi l’80% delle donne ha un contratto part-time, e in Svizzera più del 60%; Belgio, Austria, Norvegia e Regno Unito superano il 40% e Svezia, Danimarca e Francia stanno al nostro livello, un po’ sotto il 40%. Ciò non comporta che il part-time debba diventare un ghetto per le donne, ma se è uno strumento per fare entrare nel mondo del lavoro chi finora ne stato escluso non ci sentiremmo di considerarlo un meccanismo di esclusione.

Contratti a tempo determinato, produttività del lavoro, part-time: sono parametri destinati a contare sempre di più nel mercato del lavoro. Tuttavia, mentre la crescita dell’indicatore della produttività è indiscutibilmente un dato positivo, la crescita del lavoro a termine e di quello part-time è abitualmente associato a marginalità e precarietà: una convinzione che, soprattutto in una fase di crescita, va ripensata alla luce di un mercato del lavoro fluido e funzionante.

Claudio Negro, Fondazione Anna Kuliscioff 

1/2/2018

 
 

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