Lavoro senior: quali scenari per gli over 55 italiani?

I trend demografici impongono agli occupati italiani di allungare sempre più le proprie carriere professionali. Mentre il tasso di occupazione degli over 55 cresce (pur ancora distante dalla media europea), il nostro Paese fatica a mettere a punto iniziative che favoriscano qualità e benessere del lavoro senior

Mara Guarino e Elena Tavanti

Secondo i dati Eurostat (ancora provvisori) riferiti al 2023, l’aspettativa di vita alla nascita nel nostro Paese ha raggiunto gli 83,8 anni, in aumento di 0,9 anni rispetto al 2022 e nettamente superiore rispetto alla media dell'UE, che si attesta a 81,5 anni. Dati che riflettono un cambiamento demografico significativo e ormai in atto da tempo, destinato a influire sempre più anche su dinamiche e politiche occupazionali italiane ed europee. 

Del resto, già nel lontano 2001, la strategia di Lisbona reclamava l’attenzione sulla necessità di una maggiore partecipazione dei senior al mercato attraverso iniziative che ne favorissero la permanenza al lavoro. L’obiettivo era quello di arrivare da lì a un decennio a un tasso di occupazione della fascia anagrafica 55-64 anni pari ad almeno il 50%: l’Italia, che in quel momento era ferma al 28,1% (la media europea si assestava invece intorno al 38%), avrebbe raggiunto l’obiettivo solo nel 2016, crescendo sì a ritmi superiori di altri Stati ma più per effetto di interventi su età pensionabile e requisiti di pensionamento che come conseguenza di misure concretamente volte a migliorare la condizione dei lavoratori senior e il loro invecchiamento attivo. Nel frattempo, a ogni modo, il tasso occupazionale ha continuato a crescere raggiungendo il 57,3% nel 2023. L’Italia resta però ancora alle spalle della media europea, pari al 63,9%, e dei principali Paesi dell’Unione. Senza scomodare alcuni casi eccellenti del Nord Europa o le statistiche della Germania (74,6%), il nostro Paese fa ad esempio peggio sia della Francia che della Spagna.  

Il confronto internazionale conferma quindi quanto emerge dai trend demografici: questa percentuale è destinata ad aumentare ulteriormente, anche e se non altro per effetto dell’adeguamento dell’età pensionabile alla crescente aspettativa di vita. Per quanto quello del pensionamento sia un tema giustamente sentito, concentrare il dibattitto sulla sola questione previdenziale e su provvedimenti che diano flessibilità in uscita senza compromettere la stabilità del sistema, rischia di mettere eccessivamente in ombra l’altro lato della medaglia: quale la strada da percorrere per consentire ai senior una permanenza di qualità, e commisurata alle loro esigenze psico-fisiche, all’interno del mercato del lavoro? Strategie di job redesign utili a creare postazioni favorevoli, corsi di aggiornamento volti a contrastare gli effetti dell’obsolescenza delle competenze professionali o, ancora, attività di tutoraggio e affiancamento per a favorire la trasmissione di conoscenze e memoria aziendale verso i più giovani sembrano infatti attività di age management oggigiorno più demandate alle iniziative di singole imprese virtuose che a un piano organico di politiche attive per il lavoro finalizzato a promuovere la (proficua) partecipazione della fascia 55-64. E la mancata, o comunque lacunosa, attuazione di queste strategie sui luoghi di lavoro fa sì che, anche quando “costretti” ad allungare la propria carriera, i lavoratori senior italiani non siano messi nelle condizioni di farlo al meglio. 

Quello dell’obsolescenza delle competenze, soprattutto in un mondo sempre più digitalizzato e in costante evoluzione, è senza dubbio un esempio emblematico. Come rileva Istat, al 2023 solo il 45,9% degli adulti italiani possiede competenze digitali adeguate, oltre un terzo (36,1%) ha competenze insufficienti mentre il 5,1% non ne possiede alcuna: nel panorama europeo, il nostro è uno dei Paesi con la quota più bassa di persone con competenze digitali almeno di base e, se anche altrove risulta abbastanza fisiologico che i giovani siano “avvantaggiati”, in Italia la quota tanto di giovani quanto di anziani dotata di competenze tende a essere più bassa della media per ogni fascia di età. Un divario con il resto d’Europa che persiste anche se si guarda ai soli occupati: la diffusione di competenze digitali in ciascuno dei 5 domini oggetto di indagine (comunicazione e collaborazione, alfabetizzazione su informazioni e dati, sicurezza, risoluzione di problemi, creazione di contenuti digitali) riguarda solo il 56,9% dei nostri lavoratori, contro il 64,7% della media dell’Unione Europea a 27 Paesi. Per quanto il livello di competenze richiesto possa variare significativamente in funzione di settori e mansione, vien da sé che questi numeri non possono dirsi incoraggianti per i lavoratori più maturi, e lo diventano ancora meno se si considera il ritardo italiano sul versante della formazione.Basti pensare che persino nel settore ICT, il più attivo nella formazione informatica, emergono lentezze da parte delle nostre imprese che, durante il 2021,  hanno erogato formazione al personale per il 54,7%, contro il 65,3% di quelle europee. Pesa, del resto, un tessuto imprenditoriale fatto soprattutto da PMI, lì dove la diffusione delle attività formative tende a crescere di pari passo con le dimensioni aziendali. Storicamente poco sfruttato, poi, l’apporto dei fondi interprofessionali, che avrebbero viceversa potuto rappresentare una spinta utile verso modelli di formazione professionale continuativa on the job per i senior già impiegati, ma anche un’occasione per la ricollocazione di quelli già usciti, loro malgrado, dal mondo del lavoro.

Insomma, per promuovere l’invecchiamento attivo nel posto di lavoro diventa fondamentale concentrarsi sul concetto di workability, che implica non solo l'adattamento alle nuove tecnologie e la possibilità di aggiornare le proprie competenze, ma più in generale la valutazione di tutti quei fattori che incidono sulla capacità, fisica e mentale, di svolgere una certa attività lavorativa. Il che vuol dire adottare un approccio integrato che passi da misure di prevenzione sanitaria ad aggiustamenti nell’orario di lavoro, per arrivare fino alla riprogettazione di spazi professionali con postazioni dall’ergonomia ad hoc. Ancora una volta, un approccio al momento appannaggio soltanto di un gruppo ristretto di imprese virtuose e senza dubbio non banale da rendere capillare in territorio popolato soprattutto da micro-incomprese.

D’altro canto, tuttavia, sono molti gli ambiti di intervento che dovrebbero e potrebbero esulare dalle singole decisioni aziendali, a cominciare da un sistema di contrattazione collettiva che al momento praticamente non prevede un riadeguamento delle mansioni all’avanzare dell’età neppure per i settori più gravosi fisicamente. Senza dimenticare poi, salvo sporadiche iniziative e un coefficiente di trasformazione del montante contributivo più elevato al crescere dell’età, la quasi totale assenza di incentivi per quanti desiderano invece restare al lavoro anche una volta raggiunti i requisiti di pensionamento, approccio al quale contribuisce senza dubbio anche il mito del ricambio generazionale. Falso mito che non trova in effetti riscontro nei dati, che vede anzi spesso il tasso di occupazione senior e quello giovanile crescere in maniera parallela. Con un’aspettativa di vita che supera gli 80 anni non si può d’altra parte pensare agli over 55 come a dei lavoratori da mettere in panchina. Attività di formazione, ri(organizzazione) del lavoro e incentivazione dell’invecchiamento attivo le principali opzioni per trasformare la transizione demografica in una possibile opportunità, nel rispetto delle specifiche esigenze di questa peculiare platea di occupati, così da creare il miglior matching possibile tra fabbisogni aziendali, richieste in arrivo dal tessuto produttivo e benessere psico-fisico dei Silver.

Mara Guarino e Elena Tavanti, Itinerari Previdenziali

17/9/2024 

 
 
 

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