Mercato del lavoro, occupati finti e disoccupati veri
La diversa classificazione di occupati e disoccupati adottata dall'Istat aiuta a rileggere l'impatto della pandemia di COVID-19 sul mercato del lavoro italiano: trovano in particolare conferma le stime che ipotizza(va)no almeno un milione di posti persi al decadere dello stop ai licenziamenti economici
I nuovi criteri statistici emessi dallUE ai quali da questo mese lIstat si attiene per elaborare i dati periodici sul mercato del lavoro riguardano essenzialmente i lavoratori sospesi dalla attività ma in costanza di rapporto di lavoro (per i dipendenti) e che abbiano sospeso lattività solo temporaneamente (per gli autonomi) che finora erano considerati occupati. La nuova metodologia prevede invece che venga considerato non occupato - in precedenza classificato come inattivo - il dipendente che sia in una qualche forma di sospensione temporanea del lavoro (CIG o equivalenti) da oltre 3 mesi, e lautonomo che non abbia svolto attività per il medesimo periodo.
Come ben sottolineato dai quotidiani e da molti commentatori, leffetto più clamoroso di questa novità è limpressionante aumento della categoria dei non occupati, e quindi per il comune sentire della disoccupazione.
In effetti i dati diffusi il 6 aprile, riferiti al mese di febbraio, mostrano 945.000 occupati in meno rispetto a febbraio 2020 (ultimo mese prima della pandemia), mentre con vecchi criteri lultimo dato (gennaio su febbraio 2020) eravamo poco sopra i 420.000. Il recente dato di -945.000 coincide quasi con le stime realizzate in occasione delle ultime pubblicazioni della Fondazione Anna Kuliscioff e di Itinerari Previdenziali di circa 1 milione di posti di lavoro perduti, che si manifesteranno quando verrà meno il divieto di licenziamenti individuali economici. La novità è stata male accolta dai sindacati, ma purtroppo non fa altro che dimostrare quanto lo stop ai licenziamenti fortemente richiesto (e ottenuto) non fosse che unillusione statistica, nella migliore delle ipotesi finalizzata a moderare il panico.
Un altro indicatore che fa giustizia di un abbaglio generato dalla statistica è quello relativo allaumento, quantomeno percentuale, dei contratti a tempo indeterminato, che non sono mai stati reali (anche se a qualcuno piaceva attribuirli alleffetto del Decreto Dignità) ma determinati proprio dalle novità sui licenziamenti: gli oltre 100.000 dipendenti stabili in più segnalati negli ultimi 12 mesi del 2020 sono in realtà 218.000 in meno. Per ovvie ragioni, lunico dato che resta stabile è quello relativo alla diminuzione degli occupati a termine (circa 370.000): il contratto a tempo determinato ha vita definita e, pertanto, non ha difese contro la cessazione.
Tutto ciò obbliga a riconsiderare in negativo tutta una serie di parametri rispetto alle rilevazioni di fine anno: il tasso di occupazione scende dal 58% al 56,5%, e lincidenza delle donne sul numero totale dei non occupati cala ancora più significativamente. Anche in questo caso si tratta di un puro effetto statistico, poiché lingresso nella categoria dei non occupati di oltre mezzo milione di uomini finora protetti dallo scudo anti-licenziamenti modifica ovviamente le proporzioni. Tuttavia la cosa pare non piacere ai sindacati i quali lamentano che, in questo modo, risulta alleggerita nellimmagine pubblica la questione delloccupazione femminile...
Giustamente Andrea Garnero e Massimo Taddei, in un lavoro pubblicato su lavoce.info, osservano che sarebbe molto più attendibile utilizzare come indicatore delloccupazione reale il monte ore lavorato: tuttavia, in questultima rilevazione, Istat non rende disponibile questo dato.
Claudio Negro, Centro Studi e Ricerche Itinerari Previdenziali e Fondazione Anna Kuliscioff
12/4/2021