Occupazione e precarietà, una fotografia diversa da quella del sindacato

Nonostante un'economia in sofferenza, il mercato del lavoro italiano ha registrato buone performance anche nelle ultime settimane: dati alla mano, stupiscono in particolare le preoccupazioni di media e sindacati su precarietà e contratti a tempo determinato

Claudio Negro

I dati Istat sull’occupazione nel mese di settembre confermano senza sorprese il trend positivo ormai consolidato a partire dalla ripartenza dell’economia dopo la crisi COVID. Crescono gli occupati sia in termini congiunturali (rispetto al mese precedente), con un incremento pari a +0,2%, sia in termini tendenziali (rispetto a 12 mesi prima), con un aumento in questo caso pari a +1,4%. In particolare, aumentano i lavoratori dipendenti (rispettivamente +0,3% e + 1,3%), mentre calano gli autonomi in termini congiunturali (-0,3%); la crescita è invece robusta in termini tendenziali (+1,7%). Ma soprattutto, in controtendenza lampante con la vulgata corrente, crescono i dipendenti stabili rispetto a quelli a termine: i primi aumentano in termini congiunturali dello 0,5% e tendenziali del 1,4%, mentre i secondi, dopo il forte incremento dei primi mesi del dopo COVID (+0,9% negli ultimi 12 mesi), cominciano a calare significativamente (-0,6% in termini congiunturali).

Altro dato positivo: aumenta, riportandosi sul 60,2%, il tasso di occupazione, mentre decresce il tasso di inattività (-0,2% congiunturale e -0,6% tendenziale); e, particolare non frequente e molto significativo, pur aumentando il numero di coloro che cercano lavoro (calo del tasso di inattività), non aumenta quello di quanti non lo trovano (tasso di disoccupazione): 0 congiunturale e addirittura -1,1% negli ultimi 12 mesi.

Occorre dire che questo trend decisamente positivo, coincidente con una crescita continua e perfino inaspettata del PIL, potrebbe mutare in relazione a vicende macroeconomiche, quali l’inflazione e le conseguenze della guerra. Intanto, è però opportuno prendere atto che l’economia italiana ha saputo reagire a due crisi economiche internazionali consecutive in modo perfino sorprendente, assestandosi su indicatori mai così buoni: il tasso di attività è stato stabilmente per i primi 9 mesi del 2022 sopra il 65%, raggiungendo i livelli record pre-pandemici; il tasso di occupazione è stabilmente sopra il 60%, come mai nella storia delle rilevazioni Istat. Il numero dei lavoratori con contratto stabile da marzo supera i 15.000.000, record storico. I contratti a termine sono 3.046.000, in moderato ma continuo calo dal mese di febbraio: costituiscono comunque il 16% dell’occupazione dipendente, del tutto in linea con i Paesi Europei (la media della zona Euro è del 15,3%).

Occorre fare delle riflessioni, non strumentali e/o demagogiche, sul perché di risultati indubbiamente buoni sul piano dell’occupazione da parte di un’economia che soffre ancora di numerose insufficienze strutturali: per citare solo quelle più attigue al mercato del lavoro un sistema di istruzione-formazione lontanissimo dalla sufficienza, un mismatch altissimo, una produttività tra le ultime in Europa (gli stessi dati relativi al mercato del lavoro soffrono comunque nel confronto europeo), un sistema di politiche attive che produce lavoro solo per i propri impiegati, ecc. Capire come, in condizioni così ostili, il mercato del lavoro riesca a produrre performance tutto sommato apprezzabili e studiarne i meccanismi, le pratiche, le relazioni industriali, le dinamiche e i contesti che le generano sarebbe di grande utilità per un approccio innovativo alle politiche attive. 

Colpisce invece come il sindacato, in generale, si disinteressi all’argomento e preferisca continuare a dipingere il mercato del lavoro come un inferno di sottoccupazione e precarietà, quasi che in assenza di situazioni estreme di sofferenza sociale e miseria la sua stessa ragion d’essere venga meno. 

 Claudio Negro, Fondazione Anna Kuliscioff
e Centro Studi e Ricerche Itinerari Previdenziali 
     

14/11/2022

 
 

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