Occupazione: stagnazione e primi segni di decrescita

Gli ultimi dati sul mercato del lavoro diffusi da Istat sono stati accolti con toni piuttosto positivi da gran parte dei media ma, a una lettura attenta, non possono sfuggire segnali piuttosto preoccupanti, come il calo delle ore complessive lavorate nell'economia italiana 

Claudio Negro

Nonostante i toni consolatori usati da gran parte dei media i dati sul mercato del lavoro ISTAT relativi al mese di ottobre non sono affatto positivi, e neanche stabili. Intendiamoci, non si tratta di numeri disastrosi, ma indicano un trend orientato alla decrescita  e, peggio ancora,  corroborato da dati di altra fonte che confermano la stessa tendenza.

Vediamo le statistiche indicate come “buone”: il numero totale degli occupati aumenta rispetto a settembre dello 0,2%. Tuttavia, il valore tendenziale (cioè rispetto a ottobre 2018) è pari a +0,9%: il che significa che la curva dell’aumento dell’occupazione tende ad appiattirsi.

Ma veniamo ai numeri assoluti: gli occupati sono +46.000 rispetto a settembre. Di questi però solo 2.000 sono a tempo indeterminato, 6.000 sono contratti a termine e ben 38.000 sono lavoratori autonomi. Il che di per sé non è un fatto negativo ma, dopo un bel po’ di mesi in cui questo dato è calato, resta il dubbio che si tratti di lavoratori dipendenti che trovano una soluzione più conveniente (per se stessi e per l’azienda) al riparo della rinnovata flat tax per gli autonomi. O che, addirittura, come adombra Di Vico sul Corriere della Sera, potrebbe trattarsi di persone che hanno deciso di riaprire la partita IVA dopo aver preso atto che i minacciati inasprimenti del trattamento fiscale dei regimi forfettari non esistono. In questo caso, si tratta o di persone che aprono la partita IVA perché “non si sa mai” o per fatturati marginalissimi. Tutt’al più può indicare una riemersione parziale dal sommerso, ma non certo nuova occupazione. Cosa che comunque non saremo mai in grado di sapere con certezza perché questi dati sono campionari, e non incrociati con i codici fiscali. Come del resto quelli delle Comunicazioni Obbligatorie che, pur rappresentando la totalità  dei movimenti reali, non sono anch'essi riferiti ai codici fiscali. In sostanza, l’aumento nominale dell’occupazione è da ascrivere ai contratti a termine e alle partite IVA.

Del resto, anche in termini tendenziali (ottobre 2019 su 2018) il lavoro a termine aumenta in misura percentuale più di quello stabile (+1,6% contro 1,2%) nonostante le "grida" contro i contratti a termine. A questo proposito è bene notare che, a settembre (ultimo dato INPS disponibile), soltanto il 4,5% delle assunzioni o trasformazioni a tempo indeterminato ha fruito dell’esonero contributivo previsto dal Decreto Dignità. D’altra parte, a proposito degli esiti del Decreto Dignità, dobbiamo prendere atto che il numero dei lavoratori a termine nel mese di ottobre è di 3.118.000, cioè il numero assoluto più alto mai registrato, con un’incidenza pari 17,2% (17,18% a settembre, 17,14% un anno fa). Ossia: i contratti a termine continuano ad aumentare, anche se più lentamente. Ma, attenzione, nonostante i proclami non crescono i contratti stabili in proporzione alla crescita dell’occupazione: sono l’82,78% del totale dei dipendenti a ottobre, erano 82,81% a settembre e 82,85% un anno fa. Per non fasciarsi troppo la testa (come però dovrebbe fare chi ha fatto della lotta al contratto a termine una ragione di governo) possiamo rilevare che in Francia i contratti a termine sono 16,7%, a fronte del nostro 17,2%, in Svezia 16,2%, in Gran Bretagna il 15,6% e in Olanda addirittura il 21,4%.

Il numero totale delle ore lavorate non riceve beneficio dal trend occupazionale: il 38% delle assunzioni fatte nel corso del 2019 finora sono state part-time. Il che, ovviamente, non significa che questa sia la percentuale di part-timers sugli occupati, ma che la percentuale acquisita (18,4% a fine 2018) non tende a diminuire, anzi! Non è un fatto negativo in sé (può aiutare l’occupazione femminile), ma certifica il calo delle ore complessive lavorate nell’economia italiana, che sta confermandosi come la caratteristica più preoccupante della ripresa post crisi del Paese.

Veniamo a un altro dato celebrato: diminuisce il tasso di disoccupazione raggiungendo il 9,7%, con un calo dello 0,2% rispetto a settembre. Senonché questo dato apparentemente positivo è dovuto a un calo del tasso di attività che scende dello 0,1%, toccando il 65,7% (si sta sempre parlando di variazioni congiunturali). Particolarmente significativa questa relazione per la classe di età più giovane, per la quale si conclama un'appariscente diminuzione del tasso di disoccupazione di 0,7 punti, in presenza però di un aumento di 0,4 punti del tasso di inattività

In definitiva, l’aumento del tasso d’occupazione è minimo (+0,2%) e verosimilmente falsato dal dato ambiguo della crescita degli autonomi. La crescita del tasso di inattività determina l’effetto quasi esclusivamente statistico di un calo della disoccupazione (da notare che il maggior incremento dell’inattività è nella fascia giovane, tra 15 e 34 anni, con un +0,8% al netto degli effetti demografici, che invece normalmente favoriscono questa classe d’età).

Non solo, il Centro Studi di Confindustria prevede come esito dell’ultimo trimestre un calo tendenziale pari all'1% della produzione, come conclusione di una congiuntura che vede una perdita di 0,3 punti a novembre rispetto a ottobre. Si tratterebbe del primo segno negativo della produzione dal 2014! Un dato interessante in proposito è quello che ci dice che nelle imprese fino a 15 dipendenti il trend delle assunzioni è rimasto abbastanza stabile nel corso del 2019 (da 673.000 complessive nel primo trimestre a 670.000 del terzo), in quelle di dimensioni superiori si manifesta invece un’evidente flessione: le aziende da 16 a 99 dipendenti calano da 448.000 a 389.000, quelle da 100 in su passano da 634.000 a 533.000. E questa è la fascia di imprese più orientate all’export e a programmare l’utilizzo delle risorse: ora, nei primi tre trimestri 2019 il 37% delle assunzioni fatte sono state a termine, più un 12% di somministrazioni. Il totale? Il 50% delle assunzioni non sono stabili: il che dice molto delle aspettative delle imprese e di ciò che si prepara sul terreno dell’occupazione.

Claudio Negro, Centro Studi e Ricerche Itinerari Previdenziali e Fondazione Anna Kuliscioff 

3/12/2019 

 
 

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