Salario minimo legale, domande e risposte

Per capire, al di fuori di ogni giudizio ideologico, se l'Italia ha davvero bisogno di una retribuzione al di sotto della quale nessun lavoro e nessun lavoratore possa essere pagato, diventa fondamentale provare a rispondere ad alcune domande sulla platea potenzialmente interessata, sull'impatto concreto sulle retribuzioni e sui percorsi giuridici attraverso i quali potrebbe essere introdotto 

Claudio Negro

Essenzialmente le obiezioni al salario minimo per legge attengono alla discussione se tale potere debba appartenere alle parti sociali che lo esercitano liberamente tramite la contrattazione collettiva o allo Stato che lo esercita tramite la legge. In realtà, si ta forse parlando di due cose diverse. Un conto sono infatti i minimi tabellari, fissati dalla contrattazione nazionale e differenti a seconda dei comparti: essi non rappresentano un minimo vitale, ma la retribuzione minima per chi lavora in quel settore, relazionata alla ricchezza che il settore può redistribuire, premiando almeno in parte i risultati generali del comparto (una distribuzione più importante e articolata dovrà eventualmente spettare alla contrattazione aziendale, che gestirà la premialità). Un altro conto è invece il salario minimo legale, che rappresenta una condizione, per l'appunto minima, garantita universalmente, con finalità di assicurare a chiunque lavori un trattamento che prescinda dalle condizioni contingenti dell'impresa e/o del comparto.

Un'ipotesi che pone alcune questione serissime, indagate anche nell'ultimo Osservatorio sul Mercato del Lavoro a cura del Centro Studi e Ricerche Itinerari Previdenziali: a chi è necessario un salario minimo di legge in un Paese dove la copertura sindacale è piuttosto diffusa? Perchè la contrattazione collettiva non può farsi carico del salario minimo universale? Come impatterebbe un salario minimo legale con il sistema della rappresentanza collettiva?

Nel 2015 il salario minimo orario lordo fissato nei contratti collettivi (cioè il livello più basso, includendo eventuali tredicesime e quattordicesime) era in media di 9,41 euro Si tratta di cifre relativamente alte rispetto al salario mediano di fatto che era di 11,77 euro lordi. Il rapporto minimo/mediano in Italia è di circa l’80%, quando in Francia il salario minimo nazionale lordo - che, in molti casi, equivale ai minimi negoziati negli accordi settoriali - è circa il 60% e in Germania si aggira intorno al 50%. Incrociando i dati ISTAT su minimi tabellari e salari, si scopre che circa il 10% dei lavoratori dipendenti riceve un salario orario mediamente del 20% in meno rispetto al minimo settoriale fissato per contratto. Vale a dire, a dati 2018, circa 2.300.000 persone sottoretribuite, la cui distribuzione non è omogenea né a livello territoriale né di dimensione aziendale. Del resto, sono depositati al CNEL ben 868 Contratti Collettivi Nazionali del Lavoro, 320 di più rispetto al 2012, di cui solo 1/3 firmati da CGIL CISL e UIL; anche a voler aggiungere a questi i contratti stipulati da sindacati autonomi dalle tre maggiori confederazioni, ma dotati di una vera base associativa e attori di pratiche sindacali “serie”, è evidente che sono centinaia i CCNL che possiamo definire "di comodo", i quali  - pur formalmente legali - fissano condizioni salariali al ribasso. Va poi peraltro tenuto conto anche di una percentuale difficile da definire con precisione, ma certamente non irrilevante, di lavoratori autonomi “economicamente dipendenti”, essenzialmente finte “partite IVA” o monocommittenze. Una platea di circa 5.300.000 lavoratori autonomi tanto che, parlando di circa 3.000.000 di persone sottopagate tra autonomi e dipendenti, ci si avvicina alla realtà probabilmente per difetto. 

Perché non può dunque bastare la contrattazione sindacale? Perchè l'art.39 della Costituzione è rimasto inattuato: l'articolo riconosce efficacia obbligatoria universale soltanto agli accordi siglati da sindacati registrati che rappresentino la maggioranza degli addetti del settore cui si riferisce il CCNL. Allo stato attuale, l'accordo resta pertanto vincolante solo per chi lo sottoscrive, e nulla può vietare a un'organizzazione che si autodefinisce sindacale tramite regolare procedura notarile di firmare un contratto con retribuzioni al ribasso, che poi qualunque impresa non aderente alle associazioni datoriali “ufficiali” può applicare ai propri dipendenti. È ben vero che la giurisprudenza consolidata, nel caso di contenzioso giudiziario, riconosce ai lavoratori la retribuzione fissata dai CCNL siglati dai sindacati “maggiormente rappresentativi” ma, dati alla mano, il rimedio non sembra efficace. Come evidenziato infatti anche dall'Osservatorio, il punto è che la gran parte dei sottopagati si colloca nelle aziende minori e in aree in cui il confine tra lavoro regolare e lavoro nero è poco netto, la presenza del sindacato è marginale e, di conseguenza, c'è anche poca propensione da parte dei lavoratori ad affrontare cause giudiziarie, dall'esito peraltro non sempre scontato, per reclamare una retribuzione equa. Fattori che rendono appunto la “via giudiziaria” certamente praticabile ma insufficiente a risolvere radicalmente il problema.

Il salario minimo per legge invaderebbe quindi  lo spazio della contrattazione collettiva? Dipende. Se la retribuzione minima viene fissata a ridosso dei minimi tabellari previsti dai CCNL, certamente potrebbe risultare depotenziata la contrattazione nazionale, anche se occorre ricordare che il CCNL si occupa di altre questioni  oltre al salario base (maggiorazioni per straordinari, turni ecc., riposi, orari, inquadramento, formazione continua, diritti sindacali, permessi, ecc.) Viceversa, viene però segnalato anche il rischio che un minimo significativamente inferiore ai minimi contrattuali possa indurre parte delle imprese ad adottarlo per risparmiare rispetto al CCNL. Se scendere troppo significherebbe creare le condizioni per un peggioramento, salire senza arrivare a ridossi dei minimi contrattuali dovrebbe concretamente migliorare le condizioni di quel 10% di dipendenti che sono sottopagati e ancor di più degli “autonomi”, che non godono neppure di una simulazione di contratto collettivo e sono in completa balia dei rapporti di forza con il committente. Anche ammesso di individuare la strada più adatta all'applicazione normativa del salario minimo, altro aspetto da non sottovalurare sarebbe dunque proprio quello della determinazione del salario minimo, ancor di più considerata la forte disomogenità territoriale che caratterizza il Paese: un livello ragionevole in Lombardia potrebbe essere fuori mercato in molte zone del Sud e, viceversa, un livello accettabile al Sud potrebbe essere irrisorio al Nord. Tanto che, laddove si volesse compiere un'operazione con effetti reali sulle retribuzioni, sarebbe allora opportuno individuare un minimo orario medio, per poi riparametrarlo per aree territoriali. 

Infine una considerazione "politica": è condivisibile l'opinione che in materia retributiva sarebbe meglio affidarsi alla contrattazione tra le parti sociali, ma è altrettanto vero che in una cornice normativa come la nostra questa contrattazione non può avere effetti erga omnes. Cosa fare quindi? Se non si intende dare completa attuazione all'art.39 (e sarebbe sorprendente riuscirci a 79 anni di distanza...), le strade praticabili non sono che due: cambiare l'art.39 - operazione ancora più difficile da spiegare a un anno di distanza dalla mobilitazione per l’ultimo referendum costituzionale – oppure intervenire con un provvedimento legislativo che, lasciando libera la contrattazione tra le parti sociali, si limiti a fissare un livello minimo sotto il quale non si può scendere. Una soluzione che avrebbe il pregio di produrre risultati immediati, senza pregiudicare successivi interventi destinati a dare soluzioni strutturali al problema dell'attuazione dell'articolo 39.

Claudio Negro, Centro Studi e Ricerche Itinerari Previdenziali e Fondazione Anna Kuliscioff

15/5/2019

 
 

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