Una lettura acritica della direttiva UE sulla parità dei salari

Grande risonanza mediatica sta avendo in questi giorni la nuova direttiva europea sulla parità salariale ma, come purtroppo spesso accade, buona parte dell'informazione italiana ne ha banalizzato il contenuto. Proviamo allora a capire (in maniera acritica) quanto previsto dalla Direttiva UE n. 2023/970

Lorenzo Vaiani

Occorre innanzitutto specificare che quando l’Unione emana una direttiva lo scopo primo non è tanto il legiferare in maniera forzosa dall’alto verso il basso bensì il riavvicinamento delle normative nazionali in uno specifico ambito. Detto altrimenti, non prevedendo una diretta applicazione all’interno dei singoli ordinamenti ma solamente la definizione di obiettivi di carattere generale (e solo eventualmente anche i mezzi e i modi attraverso cui perseguirli), le direttive devono poi essere fatte proprie da ciascuno Stato membro, che le recepirà sulla base delle proprie peculiarità legislative e di ordinamento. Nel caso specifico della Direttiva UE n. 2023/970 il termine di ricezione per i singoli Paesi è fissato al 7 giugno 2026, pertanto fino ad allora ogni discorso di natura giuridica è rimandato.

Oltre a questo aspetto meramente tecnico, ma sicuramente non secondario, prima di entrare nello specifico di quanto previsto dalla normativa comunitaria è doveroso aprire una parentesi - per così dire, storica -  sull’argomento.  La parità salariale (e non solo) tra i sessi è un cardine fondante dell’Unione Europea sin dalle sue origini, tanto che  già il Trattato di Roma del 1957 prevedeva il principio della parità di retribuzione. Questo principio fondamentale, oggigiorno, è stato racchiuso all’interno dell’art.157 del Trattato sul Funzionamento dell’Unione Europea, il quale stabilisce che: "Ciascun Stato membro assicura l'applicazione del principio della parità di retribuzione tra lavoratori di sesso maschile e femminile per uno stesso lavoro o per un lavoro di pari valore". 

 

Risulta pertanto chiaro che quanto previsto dalla recente direttiva non costituisca tanto una novità normativa a riguardo bensì, come già accennato, un atto di riavvicinamento delle singole legislazioni nazionali in materia sulla base di alcuni criteri e parametri specifici. Vediamo quali.

In primo luogo, è giusto ricordare come la Direttiva UE ricadrà tanto sul settore pubblico che su quello privato, anche se per quest’ultimo sono previste importanti differenziazioni rispetto alla dimensione dell’azienda (su questo punto si tornerà più avanti). Le informazioni che i datori di lavoro dovranno fornire sono relative a specifici parametri statistici e non riguardano mai la singola retribuzione del lavoratore (l’obbligo di pubblicità è difatti già oggi previsto solo per i dipendenti pubblici). Nel dettaglio, queste informazioni sono relative a: 1) divario retributivo di genere (ovvero quanto in media la componente maschile o femminile guadagna più dell’altra); 2) divario retributivo di genere nelle componenti complementari o variabili; 3) divario retributivo mediano di genere; 4) divario retributivo mediano di genere nelle componenti complementari o variabili; 5) percentuale di lavoratori di sesso femminile e di sesso maschile che ricevono componenti complementari o variabili; 6) percentuale di lavoratori di sesso femminile e di sesso maschile in ogni quartile retributivo; 7) divario retributivo di genere per categorie di lavoratori, ripartiti in base al salario o allo stipendio normale di base e alle componenti complementari o variabili.

Tali informazioni, come accennato in precedenza, dovranno essere fornite con tempistiche diverse sulla base del numero di dipendenti: per le aziende con oltre 250 lavoratori la scadenza è fissata entro l’anno successivo dalla ricezione (ovvero entro il 7 giugno 2027) e successivamente con cadenza annuale; tra i 150 e i 249 lavoratori il termine iniziale è il medesimo e, successivamente, la periodicità è fissata ogni 3 anni; tra i 100 e i 149 lavoratori entro il 7 giugno 2031 e poi ogni 3 anni. Nel caso di aziende con meno di 100 dipendenti (che in Italia rappresentano la quasi totalità, poiché circa il 95% del tessuto imprenditoriale nazionale è costituito da aziende con meno di 10 dipendenti) i datori di lavoro potranno inviare le informazioni su base volontaria, a meno che non vengano previsti obblighi differenti dalle singole norme nazionali.

Oltre a questi elementi da fornire agli stakeholder e a eventuali organi di vigilanza pubblici, i dipendenti di ciascuna impresa avranno il diritto di richiedere e ricevere per iscritto le informazioni sul loro livello retributivo individuale e sui livelli retributivi medi, ripartiti per sesso e per categorie di lavoratori che svolgono lo stesso lavoro o una mansione di pari valore. Inoltre, potranno essere richieste delucidazioni rispetto ai criteri utilizzati per determinare la retribuzione, i livelli retributivi e la progressione economica dei lavoratori. Tuttavia, anche in questo caso le aziende con meno di 50 dipendenti potranno godere di diversi esoneri.

Ma quanto è rilevante il fenomeno del gender pay gap in Europa? A fine 2021 (ultimi dati disponibili) la nazione con il maggior livello gender pay gap era l’Estonia, con uno squilibrio a favore della componente maschile superiore a poco più del 20% nella retribuzione oraria, e seguita da Austria (19%) e Germania (18%). Il dato medio UE è pari al 13%, mentre in Italia il divario retributivo di genere è tra i più bassi, “appena” il 5%.

A ogni modo, sempre allo scopo di arginare anche questo fenomeno, la direttiva prevede anche la trasparenza retributiva prima dell’assunzione, durante il processo di selezione. I candidati avranno dunque diritto a ricevere dal potenziale datore di lavoro informazioni sulla retribuzione iniziale o sulla relativa fascia rispetto alla posizione in questione, sulla base di criteri oggettivi e neutri. Ancora, la direttiva vieta al datore di chiedere ai candidati informazioni sulle retribuzioni percepite al momento del colloquio o nei precedenti rapporti di lavoro e, al tempo stesso, di prevedere clausole contrattuali che limitino la facoltà dei lavoratori di rendere note le informazioni sulla propria retribuzione.

Alla luce di quanto scritto appare evidente come titoli quali “decade il segreto retributivo” o “presto potremo sapere quanto guadagnano i nostri colleghi” siano piuttosto scorretti dal punto di vista sostenziale, con il concreto rischio di dare adito a interpretazioni fuorvianti dell'operato comunitario. Infatti, ed è bene ribadirlo, la direttiva, così come la futura legge di ricezione nazionale, non potranno mai prevedere la facoltà per un dipendente di poter richiedere informazioni puntuali e di dettaglio sulla retribuzione di uno specifico qualsivoglia collega. L’Unione ha semmai “solamente” aggiunto un nuovo tassello nella lotta alla disparità dei salari ma, appunto, si tratta di un tassello che ancora non possiamo stabilire che forma e portata avrà in Italia.

Merita, in conclusione, una nota particolare l’interessante e lungimirante riflessione fatta dal Professor Pietro Ichino che pone in evidenza come principale rischio della nuova direttiva la possibile uniformazione all’interno del mondo privato dei trattamenti salariali e/o di eventuali altri emolumenti pagati direttamente o indirettamente, in contanti o in natura, dal datore di lavoro. Situazione che sarebbe particolarmente pericolosa perché, se è vero che a parità di mansioni e impiego debba essere garantita la stessa retribuzione tra uomini e donne (ma il discorso vale anche per altri possibili fattori discriminatori), lo è altrettanto che il datore di lavoro deve poter avere la facoltà di premiare eventuali dipendenti che svolgono meglio di altri i compiti che gli sono stati affidati; altrimenti vi è il concreto rischio che si verifichi l’appiattimento tipico dell’impiego pubblico, settore verso il quale molto spesso viene sollevata la criticità della mancanza di meritocrazia e di premialità per i collaboratori migliori.

A complemento di quanto fin qui scritto giova poi ricordare ancora una volta come il nostro Paese sia caratterizzato nel settore privato in maniera quasi assoluta da aziende estremamente piccole, all’interno delle quali è molto spesso difficile poter individuare persone che svolgono la stessa mansione o hanno gli stessi compiti.  Pertanto, poter calcolare i diversi indici statistici potrebbe risultare estremamente complesso, se non addirittura scorretto, poiché servirebbero settori o comparti con quantomeno una decina di persone “equiparabili” per poter avere valori significativi. Non bisogna infatti mai dimenticare che “la media è quella strana cosa per cui se io mangio due polli e tu zero abbiamo mangiato un pollo a testa”. Un problema che verosimilmente neppure si porrà (e questo la dice lunga sul modo in cui la notizia è stata comunicata): è importante infatti tenere a mente che, per com'è impostata la direttiva europea, non sarà previsto alcun obbligo di informazione verso l’esterno per la quasi totalità delle nostre imprese nazionali. Appunto troppo piccole per entrare nel raggio d'azione previsto dall'Unione, al netto di diverse specifiche previsioni da parte del nostro legislatore. 

Lorenzo Vaiani, Centro Studi e Ricerche Itinerari Previdenziali

5/9/2023

 
 
 

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