Welfare aziendale al bivio: quale destino dopo COVID-19?

COVID-19 sta sollecitando, con una certa rapidità, risposte inedite anche da parte degli attori del secondo welfare: in questo contesto e tenuto conto delle difficoltà economiche cui stanno andando incontro molte imprese italiane, come si posiziona il welfare aziendale? 

Mara Guarino

Nonostante uno stallo sul fronte istituzionale, segnalato da una battuta d’arresto nei provvedimenti legislativi in materia (scarse, ad esempio, le novità contenute nelle Leggi di Bilancio per il 2019 e per il 2020, che pur facevano seguito a una serie di manovre finanziarie viceversa molto attente al tema), e malgrado il persistere di qualche incertezza da parte dei potenziali beneficiari, lo scorso febbraio il terzo Rapporto Censis-Eudaimon sul welfare aziendale scattava la fotografia (in chiaroscuro) di un settore in evidente espansione: in aumento i dipendenti coinvolti, più alto il livello di conoscenza tra i lavoratori, in crescita la consapevolezza del contributo che questo strumento può fornire a una più alta qualità della vita. 

Nel dettaglio, secondo quanto rilevato dalla ricerca, il 54,5% dei lavoratori dipendenti sarebbe favorevole a scambiare qualche incremento retributivo con servizi di welfare in azienda, benché cresca anche in verità rispetto all’anno precedente il numero degli incerti. Il 22,9% degli intervistati dichiara invece di conoscere bene il welfare aziendale, con un incremento annuale del 5,3% indubbiamente di buon auspicio malgrado il persistere di un forte gap di conoscenza tra figure apicali ed esecutivi. Per il 66,1% dei lavoratori intervistati che già ne beneficiano, il welfare aziendale sta avendo un impatto positivo sul proprio benessere all’interno e all’esterno dell’azienda. A legittimare la maggiore diffusione vengono infine chiamati in causa i numeri in arrivo dal report periodico del Ministero del Lavoro e delle Politiche Sociali, di cui la ricerca Censis-Eudaimon realizza una comparazione su base annuale: dei 17.300 contratti attivi depositati per via telematica a novembre 2019, il 52,7% (9.121) prevedeva misure di welfare aziendale; a novembre 2018, la quota era pari al 46,1% dei contratti, facendo dunque segnalare un +6,6% la differenza percentuale. 

Facendo un balzo in avanti, l’ultimo report - aggiornato al 14 maggio 2020 - conferma di fatto il trend pur rilevando al tempo stesso qualche primo, forse inevitabile, segnale di difficoltà. Dal 2016 sono state complessivamente 54.991 le dichiarazioni depositate dalle aziende presso il Ministero del Lavoro ai sensi dell’articolo 5 del DM 25 marzo 2016: 11.239 i contratti al momento attivi (di cui 8.577 aziendali e 2.752 territoriali). Nel complesso, però, nel primo quadrimestre 2020 sono “solo” 1.577 i nuovi contratti depositati, in ribasso rispetto agli anni precedenti quando, nello stesso periodo vale a dire tra gennaio e aprile, questo stesso dato era sempre stato superiore di almeno un migliaio di unità (in ordine crescente, 2.619 nel 2018, 2.843 nel 2017 e 2.909 nel 2019). A ogni modo, stando a quest’ultima rilevazione, la percentuale di contratti che prevede misure di welfare aziendale continua comunque a crescere, arrivando al 57,4% (6.455 il valore assoluto) per un totale di 1.924.079 lavoratori coinvolti, di cui 1.853.021 per contratto aziendale e 71.058 per contratto territoriale. I dati del report ribadiscono infine, per quanto riguarda la contrattazione aziendale, il persistere di forti disparità su base geografica e settoriale: i beneficiari si contrano infatti in prevalenza nelle regioni del Nord e nei settori dei servizi e dell’industria, per i quali risulta anche nettamente più elevato il valore medio del premio “convertibile” in benefit o servizi di welfare aziendale. 

Tabella 1 - Lavoratori beneficiari e valore annuo medio del premio  

Tabella 1 - Lavoratori beneficiari e valore annuo medio del premio

Fonte: Report sui Premi di Produttività al 14 maggio 2020 - Ministero del Lavoro e delle Politiche Sociali 

In attesa di verificare le tendenze statistiche dei prossimi mesi, una domanda sorge spontanea: con oltre 100mila attività - escluse partite IVA di autonomi e professionisti - a rischio di mancata riapertura e almeno 1,5 milioni di posti di lavoro altrettanto vacillanti a causa della pandemia secondo le stime del Centro Studi e Ricerche Itinerari Previdenziali, quale destino attende il welfare aziendale nel post COVID-19? 

Se il futuro è incerto, anche il presente del comparto offre  del resto scenari contraddittori. Mentre da una parte è vero che, per ovvie e comprensibili ragioni, nel corso delle cosiddette fasi 1 e 2 sono state ben altre le priorità di aziende, così come della contrattazione di secondo livello - dalla revisione dell’attività produttiva alla  riorganizzazione dei tempi e delle modalità di lavoro (turni, smart working, ferie, ricorso alla cassa integrazione, etc) nel corso del lockdown, passando per la successiva predisposizione di tutte le misure di sicurezza necessarie a tutelare la salute dei lavoratori nel momento della ripartenza - lo è infatti altrettanto che, già nel pieno della crisi sanitaria prima e socio-economica poi, diverse imprese sono ricorse a misure di welfare aziendale ad hoc per rispondere in modo solerte ai rinnovati bisogni dei propri dipendenti, delle loro famiglie, quando non addirittura delle relative comunità di riferimento. 

Misure, peraltro raccolte e censite da Percorsi di Secondo Welfare attraverso una “Open Call for Good Pratices”, che spaziano dal supporto porto pedagogico per le famiglie alla prese con la didattica a distanza a bonus mensili straordinari per le spese di baby-sitting; o ancora, da pacchetti assicurativi e polizze sanitarie a misura di coronavirus a integrazioni monetarie volte a garantire ai lavoratori in CIG un reddito mensile vicino alla normale retribuzione. E che, per quanto non per forza anticipatorie delle  future scelte dall’intero comparto, testimoniano come la minore disponibilità economica delle aziende non coinciderà necessariamente con un arretramento del welfare aziendale il quale, al contrario proprio nella fase post coronavirus potrebbe confermarsi un’importante arma a disposizione dei datori di lavoro (e del legislatore) per incrementare il reddito netto dei dipendenti, non ricorrendo a integrazioni salariali, con tutto ciò che ne deriverebbe anche in termini di cuneo fiscale e contributivo, quanto piuttosto a un’offerta concreta di beni e servizi di primaria necessità, con ricadute positive per le famiglie e l’intera economia. 

Prestazioni di natura sociale (previdenza complementare, assistenza sanitaria integrativa, LTC e assicurazioni sociali), familiare (istruzione per i figli, strumenti di conciliazione vita-lavoro, etc) o di sostegno più o meno diretto alla professione stessa (acquisito di dispositivi tecnologici, facilitazioni per i trasporti, etc) potrebbero cioè diventare gli strumenti attraverso cui favorire, ancor di più in un momento delicato come quello che segue l’emergenza innescata da SARS-CoV-2, il definitivo sviluppo del welfare aziendale come sostegno complementare e integrativo di welfare pubblico sempre più sotto pressione. A patto però di una revisione dei piani ora già in uso, che sappia, da una parte, cogliere con soluzioni innovative le mutate esigenze dei potenziali beneficiari e, dall’altra, portare a compimento quel processo di “finalizzazione” da più parti invocato già in tempi non sospetti

Il welfare aziendale è insomma a un bivio. Se la normativa di riferimento è già un buon punto di partenza, al legislatore in primis, e dunque ad aziende e dipendenti poi, spetta ora il compito di trasformare COVID-19 in un’opportunità per portare a termine un definitivo salto di qualità che, pur senza snaturare la natura privata dello strumento, ne possa accentuare il già evidente valore pubblico. 

Mara Guarino, Itinerari Previdenziali 

23/6/2020 

 
 
 

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