Casse e libere professioni, un bilancio (in attesa degli effetti di COVID-19)

In attesa di valutare l'impatto di COVID-19 sull'esercizio delle libere professioni, i bilanci della Casse di Previdenza riferiti al 2019 consentono di fotografare i trend del settore: crescono gli iscritti e si assottiglia il divario di genere mentre persiste il gap sul versante dei redditi, che vedono spesso ancora troppo penalizzate anche le giovani generazioni 

Alessandro Bugli e Francesca Colombo

I dati ricavati dai bilanci recentemente pubblicati delle Casse di Previdenza fanno ovvio riferimento al 2019. È chiaro, quindi, che i numeri e i trend non tengono conto del semestre nero COVID-19 e di quello che ne sarà.

La categoria dei professionisti ante COVID-19 conosce un lento, ma continuo, incremento del numero di iscritti (1,676 milioni; +0,75%) e si attesta a un 7% della forza lavoro totale, a cui bisogna aggiungere i familiari a carico, tutti i lavoratori dipendenti e parasubordinati che operano per conto degli stessi professionisti. Insomma, una macchina che dà lavoro e “sfama” un'importante parte della popolazione del Paese. Ma soprattutto, per quel che diremo, una spina dorsale necessitata e tautologicamente “professionalmente” qualificata in un mondo 4.0. Se il numero complessivo dei professionisti cresce, non tutte le categorie però registrano un incremento, alcune – a mero titolo di esempio - risentono delle modifiche del mondo della distribuzione (ad esempio, Fondazione Enasarco), altre (come la Cassa Nazionale di Previdenza ed Assistenza a favore dei Ragionieri e Periti Commerciali) scontano le dinamiche macroeconomiche del Paese sulle attività produttive e i sempre maggiori costi relativi all’esercizio della professione e all’incremento della responsabilità professionale.

Si continua poi a leggere di una positiva fotografia data dal pressoché totale pareggio tra uomini e donne nelle professioni. Il dato è confermato anche per il 2019. Siamo un rapporto di 40 a 60, con ancora un leggero gap per le professioniste; gap che potrebbe essere agilmente recuperato nel medio termine, sia per il genere di professionista in ingresso sia per il fatto che, nelle fasce giovani di popolazione, le donne sono complessivamente di più degli uomini (importante il dato delle professioniste under 40). Questo trend, oramai consolidato, fa mettere a riposo l’originario presidio maschile di alcune delle principali professioni. Basti pensare che nella nostra categoria, quella degli avvocati, il rapporto di genere (nel 1981) contava 7 colleghe per ogni 100 avvocati; già nel 1995 si saliva a 21 e, poi, a 36 nel 2005. Oggi (2019) siamo a 48 su 100 (dato che depurato dei pensionati attivi, arriva alla sostanziale parità).

Guardando i dati, almeno per alcune professioni, pur arrivandosi a un rapporto numerico di pareggio tra professionisti donne e uomini, restano però forti divari in termini di reddito. Guardando ancora una volta alla nostra categoria, per mero esempio (il dato è ancora quello del 2018), gli uomini hanno redditi superiori del 120% rispetto alle colleghe; anche se, a onor del vero, sono proprio quest'ultime a crescere meglio in termini percentuali di reddito rispetto al precedente periodo di rilevazione.

C’è poi il tema generazionale di reddito che tanto incide sulla tenuta prospettica degli Enti (pur a fronte della qualità di gestione delle risorse che sarà analizzata i prossimi 8 e 9 settembre in occasione della presentazione del Settimo Report sugli Investitori istituzionali italiani), ma anche sull’attrattività di questi mondi per le future generazioni. Se, da un lato, è normale che un professionista di lunga esperienza abbia redditi superiori a un novizio, di converso, è necessario un equilibrio sostanziale tra generazioni e una soglia minima di sussistenza. Il reddito annuale dichiarato è per alcune giovani generazioni insufficiente a garantire lo sviluppo dell’individuo nella sfera familiare e professionale (si pensi al dato degli avvocati under 35 con 15mila euro di reddito medio su base nazionale). Gli interventi sulla fiscalità degli autonomi e, altrettanto, la messa in campo di importanti misure di assistenza da parte delle Casse dei Professionisti aiutano certamente a dare risposte all'esigenza delle giovani generazioni di garantirsi un tenore di vita dignitoso, ma è necessario persistere e affinare per consentire a molti di questi di non divenire mero “capitale umano” (secondo l’odiosa definizione in uso) per realtà che dispongano di mezzi e strumenti per valersi dell’impegno altrui e giocare sul momento di crisi.

Veniamo al tempo del COVID-19. Come detto, non è dato di esprimersi in termini sufficientemente sicuri sul da farsi; stante la confusione lasciata dalla pandemia e il quadro incerto di medio termine. Se i dati dell’accesso alle agevolazioni fossero la cartina di tornasole del settore, verrebbe da rinforzarsi il comune pensiero del mala tempora currunt: 1,5 milioni di domande e 1,5 miliardi di provvidenze a marzo, aprile e maggio 2020. Se questi numeri fossero confermati – dando per assodato che si tratti di alcune delle Casse più popolose – la buona parte del totale degli importi complessivamente liquidati riguarderebbe avvocati, ingegneri e architetti (prendendo il mese di marzo 2020, circa 140 milioni su 240 totali liquidati dalle Casse).

Parlando, per un momento, del settore che meglio conosciamo, la verità sembra stare nel mezzo (come sempre): non per tutti le cose vanno male, ma per alcune fasce di avvocati (alcune citate prima) la crisi batte e batterà forte. Nel nostro settore, tra le prime reazioni, si registrano ad esempio diverse interruzioni di collaborazioni – anche – consolidate. Tornando al generale, ma con un occhio al settore dell'avvocatura, ciò che si legge in questi giorni è la parafrasi della visione di un mondo difficile e ostile a chi non disporrà – soprattutto in ambito professionale – dei mezzi e della forza per combattere in un mondo (sicuramente) diverso e ancora più competitivo e asfittico in termini di ritorni economici. 

Insomma, ancora una volta, l’unica cosa che ci si può augurare – in linea con quanto fatto nel 2008 e 2011 – è l’utilizzo di ogni strumento di sviluppo e crescita in termini di competenza e di erogazione dei servizi, per non concentrare il mercato e perdere l’individualità e competenza propria dei tanti attori del mondo delle professioni. Il tutto senza avere paura di passare per soluzioni anche banali, se utili (studio delle lingue, approfondimento e apertura a nuovi segmenti di professionalità, meccanizzazione e tecnologia in ogni dove). Ora, queste considerazioni valide allora scontano la sostanziale differenza del mondo post pandemico. Ma anche qui, quello strazio necessario iniziale per molti professionisti (mille riunioni in video, perdita di ogni limite tra domestico e extradomestico, aggravio delle complessità per chi ha dovuto sommare impegni familiari e professionali, ad esempio per le scuole chiuse) potrebbe condurre a rimeditazioni del modo di vivere la propria vita professionale e, per chi può, rimeditare la propria relazione col territorio, riscoprendo uno smart work non più da monolocale metropolitano ma magari di riunificazione familiare, anche in logica di mutuo supporto in termini di welfare (assistenza long term verso i Silver, supporto da parte dei Silver verso le generazioni più giovani e i nipotini nelle attività del vivere quotidiano). In questo senso l’utilizzo iniziale - naïf, eccessivo e barbaro, citando sempre il settore legale - delle videoriunioni e dello smart working potrebbe lasciare il posto a una consulenza matura che non richieda un’agenda al 100% sulle principali città, ma di lavorare a distanza. Così come un vero sviluppo del processo telematico. Certo, a livello commerciale ne pagherebbero dazio le attività di prossimità agli snodi di traporto e agli uffici, ma forse ne guadagnerebbe nuovamente la microimpresa del restante territorio (desertificato) italiano. 

Detto questo, lasciando a chi di dovere di aiutare a disegnare il nuovo mondo, ricadiamo in facili considerazioni, sostenendo che sarà la capacità di immaginare il domani a fare la differenza. 

Essere liberi professionisti – lo sanno bene tutti i colleghi – significa confidare ogni giorno sulle proprie forze e sui propri mezzi, rifuggendo dall’essere eterodeterminati ma, conseguentemente, rinunciando a parte della “rete di protezione” del lavoro subordinato o comunque non professionale. In questo la bussola interiore e l’animo rabdomante faranno la differenza. Ma il protagonismo richiede anche di sapere ingaggiare le giuste alleanze e non dimenticarsi che siamo tutti parte di un sistema: così la mutualità tra i componenti delle categorie di rete e le aggregazioni professionali possono aumentare la forza e distinguersi all’italiana da un mondo di pochi grandi oligopoli professionali.

Ora più che mai, è il tempo di pensare, sognare e creare, sapendo che se un passo indietro ci sarà (scusandoci con Fidel Castro) questa volta sarà solo per prendere la rincorsa. 

Alessandro Bugli, Centro Studi e Ricerche Itinerari Previdenziali e Socio Studio Legale Taurini&Hazan 

Francesca Colombo, Studio Legale Taurini&Hazan

26/8/2020

 
 

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